Vivian Maier
Chi era Vivien Maier? Un’anima pura, una di quelle presenze sfuggenti, che ci passeggiano gomito a gomito, piene della loro vita e che non lasciano trasparire nulla della loro fantasia, perchè potremmo perderci in quei moti ondosi di idee. Così me la immagino Vivian, consapevole della voragine che la sua interiorità avrebbe rappresentato per chi la guardava, decisa a non essere un ostacolo per se stessa o per il prossimo , protesa ed arresa con umiltà alla sua personalissima percezione del mondo. La immagino svolgere i suoi compiti quotidiani, meccanicamente, con lo spirito rivolto ad altro, ad una dimensione che nessuna del le persone attorno a lei avrebbe potuto percepire o comprendere.

Nell’ottobre del 2019 dopo aver visto “Vivian Maier. The Self-portrait and its Double” allestita a Trieste, presso il Magazzino delle idee, alla fine del percorso espositivo, mi sono sentita svuotata, sola, nostalgica nei confronti di una donna che non conoscevo, un essere umano che forse nessuno ha avvicinato in profondità. La sua vita mi ha ricordato immediatamente l’ostinata esisteza appartata di Emily Dickinson - poi ho letto di questo evidente parallelismo intravisto anche da altri - inclusa la mole di opere celate ad occhi indiscreti, che forse non avrebbero compreso il senso di alcune sue scelte. Ho percepito la stessa sensazione di aver vissuto per qualche attimo, il tempo della lettura di un saggio o di una poesia per quanto riguarda Emily, lo spazio della mostra per Vivian, al fianco di persone fuori dal comune. Una vera artista che si colloca nel mondo, ne rispetta i canoni e le regole ed al contempo compie una sua personale e sileziosa rivoluzione. Questa sorta di missione che spinge l’artista a compiere ogni sua azione, è la linfa vitale che lo tiene in vita, malgrado la mediocrità del mondo che lo circonda o la mancanza di mezzi. Il pensiero unico, che ne alimenta e nutre lo spirito è dato dalla tensione creativa, un ponte che ne traghetta la sensibilità oltre, in una dimensione che solo superficialmente può essere percepita. Una sorta di trance di cui lo spettatore solo a tratti è reso partecipe, non osando guardare a pieno viso, perchè questo significherebbe accedere ad una coscienza lucida, un fardello destinato a pochi. Questo è l ’artista secondo me, e ritengo sia quello che John Maloof - lo scopritore che ha il merito di aver portato alla ribalta Vivian Maier - ha intravisto quando, per la prima volta nel 2007 ha posato lo sguardo sugli scatti di questa bambinaia vissuta nel più totale anonimato lasciando in eredità 12.000 negativi, alcune foto, filmati, registrazioni audio e centinaia di rullini non sviluppati.
Vivian Maier nasce a New York nel 1926, poi, a seguito della separazione dei genitori vive con la madre e con lei si trasferisce per alcuni anni a Champsour in Francia in questo periodo vivono insieme ad un’amica della madre Jeanne Bertrand appassionata di fotografia che trasmetterà a Vivian questa voglia di fermare il tempo in fotogrammi. Nel 1938 con la madre Vivian rientra in America con il transatantico Normandie, di cui ricordo di aver visto alcune foto color seppia durante una visita ad Ellis Island. Intorno ai 25 anni Vivian torna in Francia per incassare un’eredità, fa un viaggio per trovare tutti i parenti e con i denari ricevuti acquista una buona macchina fotografica, quando ho letto di questa decisione sono stata così orgogliosa della giovane Vivian capace di mettere tra le priorità un acquisto importante per se stessa, non è scontato. Ci sono molti scatti di questo suo viaggio in Europa, poi torna a Southampton dove presta servizio come bambinaia presso una famiglia e poi con lo stesso impiego si trasferisce a Chigago, allora aveva circa 30 anni e anche se non era il suo lavoro preferito, fare la bambinaia le riesce bene, i bambini la adorano e qui, presso la famiglia Ginsburg vive 17 anni, finché i bambini ne hanno bisogno e poi si sposta di famiglia in famiglia mantenendosi e trascinando con se le sue casse di negativi. Vive in umili stanzette messe a a disposizione dalle famiglie presso le quali lavora, il suo bagno fa anche da camera oscura. Accumula scatti senza dire nulla a nessuno, riempie i suoi spazi circondata dall ’indifferenza. Questa freddezza, nella quale conduce la sua esistenza, forse amplifica la sua vena artistica e la sua curiosità nei confronti del mondo. Numerose fotografie sono realizzate durante i suoi spostamenti New York, Chicago, Los Angeles . Tra il 1959 ed il 1960 compie un viaggio di sei mesi da sola in giro per il mondo, ammetto che vedendo le sue foto mi sono emozionata non poco. Considerato il fatto che conduceva una vita molto appartata e parsimoniosa, aveva dentro di se una curiosità ed una sete di conoscenza mai sopite, lo sguardo nei suoi autoscatti particolari, in cui la si vede riflessa dentro specchi o vetrate, è illuminato da una luce gioiosa. Viaggia e attraversa le Filippine, la Thailandia, l’india, lo Yemen, l’Egitto e nuovamente la Francia, un ultimo soggiorno a Champsaur, dove aveva vissuto con la madre.
Me la immagino a vivere parsimoniamente per poi concedersi delle fughe curiose alla scoperta di altre lingue, altri orizzonti, altre vite. Ma la cosa incredibile è che gelosa di questa sua unica ricchezza, custodisce il segreto di questo viaggio, non ne parla con nessuno, nemmeno alla famiglia che la ospitava.
La immagino sempre all’erta, il giorno e le ore libere sono un pretesto per scappare dalla sua routine e catturare prima con la sua Rolleiflex e poi una Leica, frammenti di vita strappati alla strada, architetture, bambini, mendicanti, uomini distinti, volti con espressioni compite o sorridenti, scene quotidiane ma per nulla scontate sotto lo sguardo di Vivian, il tutto viene ordito come l’ affresco analitico di una realtà osservata con distacco, come un drone umano del tempo. Lei sembra vivere al di fuori della scena, anche quando si ritrae, è evanescente. Un riflesso. Maloof per puro caso, durante una ricerca acquista per pochi dollari le casse contenute in un box, l’affittuaria era una donna anziana e malata che non aveva pagato le quote e per questo i suoi averi erano stati messi all ’asta, mai avrebbe immaginato di trovare questa mole di negativi, dopo aver pubblicato qualche scatto su Flikr nel 2007 e riscontrato molto successo comincia una ricerca per capire a chi appartenessero. Nel 2008 a seguito di un incidente sul ghiaccio Vivian aveva battuto la testa ed era stata ricoverata, quindi la prima famiglia presso cui Vivian aveva lavorato, i Ginsburg, le avevano dato aiuto cercando una clinica ed una casa dove potessero accudirla. Purtroppo lei muore nell’aprile del2009 prima che Maloof l’avesse rintracciatae potesse incontrarla. Sono molto grata a lui per l’opera ecomiabile di valorizzazione e promozione della figura di Vivian Maier e del suo l avoro, grazie a lui possiamo fruire di molte emozioni, racchiuse in questi scatti.
La fotografia per Vivian Maier è una sorta di privilegiato punto di vista, esce di casa e ferma con le sue immagini scene di vita, sguardi, azioni, attimi rubati allo scorrere incessante del tempo. Si tratta principalmente di street photography, Maloof la considera la madre ante litteram del genere, chissà se Vivian ha mai pensato di poter incasellare il suo “reportage” in un genere, come poi a noi è dato fare per riconoscere correnti, stili e personalità. Quello che osserviamo tramite i suoi scatti è lo scorrere della sua vita, questo rende ancora più toccante la sua opera, ed è ciò che mi resterà per sempre nel cuore. Una vita silenziosa impressa in pellicola, per non cadere nell’oblio che ci afferra, inesorabile.
COLLABORAZIONE - Articolo a cura di: Luciana Amato