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Vaccino si, vaccino no, vaccino gnamme, se famo du spaghi

Come non ricordare il tormentone sanremese di Elio e le storie tese, presentato sul palcoscenico del teatro Ariston durante il Festival della canzone italiana nel lontano 1996, con il motivo: “La terra dei cachi”. Come tutti i tormentoni riuscì ad entrare con estrema facilità nella testa degli italiani. L’allegra musicalità ed il ritmo piacevole ne determinarono il successo, ma il testo fu probabilmente l’elemento in più, la linfa vitale che tutt’oggi rende intramontabile il componimento.



Il quadro che la canzone di Elio dipinge, con estrema ironia, è quello di un’Italia caratterizzata dai suoi mali cronici e dallo stereotipo dell’italiano e delle sue priorità: calcio, spaghetti, pizza e caffè. Ma se tali prerogative in fondo rappresentano degli elementi identitari indiscutibili, forse banali ma sicuramente testimoni attendibili di una abilità e creatività fuori dal comune, lo stesso non si può dire per quei “virus” che nessun vaccino, cura o sortilegio sono riusciti, ormai da decenni, a debellare.

Il testo della canzone parla di malaffare, criminalità, corruzione, malasanità e... problemi irrisolti. La riflessione, a questo punto è d’obbligo: cosa è cambiato in questi 25 anni? La risposta è alquanto scontata: quasi niente.


Se per la pizza e gli spaghetti, il caffè ed il calcio, possiamo essere d’accordo che questa immutabilità (o quasi) rappresenti un bene, lo stesso non possiamo dire per il malaffare e la corruzione, la criminalità e la malasanità. A questo punto, qualcuno, destandosi dal divano diventato ormai il luogo di lavoro per eccellenza, potrebbe chiedermi: ma come? Malasanità? Ma hai letto la notizia dei sanitari italiani che, per l’impegno e la dedizione profusi durante questa dannata pandemia, sono stati candidati al premio Nobel per la pace? Lo sai che è la prima volta nella storia che accade una cosa del genere?


Si certo. È proprio così. Siamo tutti fieri ed orgogliosi dei nostri medici ed infermieri, degli OSS e dei volontari, e di tutti coloro che si sono spesi, senza risparmiarsi, al fronte di questa terribile ed impari lotta contro un nemico invisibile e per questo quasi invincibile. A loro va tutta la nostra gratitudine, la stima ed il rispetto. Ma questi straordinari combattenti non sono che le prime linee, gli uomini in trincea di un apparato molto ben strutturato, costituito da colonnelli e generali, da burocrati e politicanti, invisibili ed assenti dal campo di battaglia ma, probabilmente, molto più determinanti ai fini di un probabile ed auspicabile successo.


Sappiamo tutti che per vincere, in qualsiasi ambito della vita, sono necessari diversi fattori tra i quali la competenza, l’abnegazione, la responsabilità ed ultima ma non ultima la programmazione. Ed allora, alla luce di quanto sta succedendo in questi

giorni, e non potendo valutare direttamente i primi tre elementi appena menzionati, mi soffermo sull’ultimo: la programmazione.


Occorre allora fare un salto indietro nel tempo e ritornare ad un anno fa. Si è capito da subito che il sistema Stato-Regioni non è ben strutturato, non vi è chiarezza sulla paternità delle competenze, non esiste un piano specifico ed aggiornato per le situazioni di emergenza, non esiste una sanità territoriale funzionante, ecc. ecc. Circostanza ancora più drammatica, non esiste una ambito di ricerca scientifica, dotato di strutture e finanziamenti adeguati, per poter esprimere al massimo le potenzialità di tanti ricercatori che, purtroppo, sono spesso costretti a trasferirsi all’estero per dar seguito alle loro virtù.


A tal proposito, siamo stati i primi in Europa ad isolare questo maledetto virus, i primi a sacrificarsi per salvare più vite possibili, i primi a soffrire per le conseguenze di questa crisi sanitaria prima ed economica poi, i primi a puntare i piedi e a spingere affinché l’Europa diventi, nel tempo, unita non solo nella moneta ma anche nella solidarietà; ma non siamo riusciti a finanziare un progetto finalizzato alla realizzazione di un vaccino. Siamo così costretti a dipendere dagli altri, da multinazionali del farmaco che, animati da ricercatori dediti a rendere un servigio all’umanità e da manager impegnati a propiziare un surplus economico alla propria azienda, producono vaccini più o meno sicuri e disponibili.


E proprio a causa dei vaccini, oggi ci ritroviamo a mettere in discussione coloro i quali, medici ed infermieri, OSS e volontari, fino a ieri elevavamo ad eroi. Mettiamo in discussione quei sanitari che, a torto o ragione, manifestano qualche dubbio sulla sicurezza di questi prodotti farmaceutici. Il caso del vaccino Astrazeneca è emblematico. Non è mia competenza soffermarmi sulla validità terapeutica del vaccino in questione, ma vorrei porre una domanda a coloro i quali, a spada tratta, propongono di intimare al personale sanitario di vaccinarsi, pena l’allontanamento dal posto di lavoro: anche in questo caso, vale la formula chi salva una vita salva il mondo? O la vita di questi ex-eroi vale un pò meno rispetto a quelle di coloro che cercano, tutti i giorni, di salvare? Ed ancora, queste vite non potrebbero essere tutelate e preservate programmando ed investendo a tempo debito nella ricerca?


Mentre aspetto di ricevere qualche risposta, mi congedo pieno di interrogativi, ma con una certezza: per sconfiggere il virus “cinese” (ma anche qualcuno nostrano) è necessaria la lucidità e la saggezza di un vecchio filosofo cinese: “Nell’operazione militare vittoriosa prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia. Nell’operazione militare destinata alla sconfitta prima si dà battaglia e poi si cerca la vittoria”.


Articolo a cura di: Antonino Marino



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