UE e diritto interno: la teoria dei controlimiti. Il caso Taricco
L’impianto garantista, caratterizzante il nostro ordinamento, trova riconoscimento in forza del principio di legalità che sorregge la disciplina penalistica nazionale.
L’art. 25, comma 2, Cost. prevede che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso: viene attribuita al legislatore una competenza esclusiva nella definizione delle condotte penalmente rilevanti e delle relative sanzioni. La ratio di questa norma consiste nel riconoscimento del monopolio della criminalizzazione al Parlamento.

Di contro, l’esistenza di nuove norme a livello comunitario e internazionale determina il rapportarsi della legislazione con principi di rango diverso. Normalmente, si ravvisa il primato del diritto UE rispetto ai diritti nazionali degli Stati membri. Di conseguenza, se una norma nazionale è contraria ad una disposizione europea, le autorità dello Stato in questione sono tenute ad applicare la disposizione comunitaria.
Questo primato incontra, però, alcuni limiti, in quanto non opera per tutte quelle norme del diritto UE che siano contrarie ai principi fondamentali di ogni ordinamento costituzionale o ai diritti inalienabili della persona umana. Si tratta della cosiddetta “Teoria dei controlimiti”, con cui la Corte costituzionale si è riservata un controllo di costituzionalità con riferimento al possibile contrasto di norme dell’UE con principi fondamentali o diritti inalienabili.
Il caso specifico, noto come “caso Taricco”, ha determinato un forte rischio di dichiarazione di incostituzionalità riguardante il diritto UE. La particolarità della vicenda è data dal fatto che il contrasto con un principio fondamentale dell’ordinamento, ossia quello della legalità in materia penale, era ravvisabile nel caso di specie nell’interpretazione che i giudici dell’UE avevano dato in una sentenza resa in via pregiudiziale relativamente all’ordinamento italiano.
La sentenza Taricco della Corte di giustizia sanciva l’obbligo di disapplicare la legge italiana che prevedeva per determinati reati una riduzione dei termini di prescrizione tale da rischiare di impedire di punire le frodi contro gli interessi finanziari UE (c.d. frode carosello, che realizza evasioni dell’IVA e conseguenti danni per le entrate dell’UE). Necessario è il richiamo all’art. 325 TFUE, che indica agli Stati membri di dotarsi di una legislazione interna tale da perseguire obiettivi comuni, tra i quali, la lotta alla frode fiscale. A tal proposito, la Corte di giustizia riteneva che, se il giudice italiano avesse riscontrato una situazione di “impunità di fatto”, le norme nazionali in questione sarebbero state in contrasto con l’articolo precedentemente citato.
Questa pronuncia ha determinato delle immediate conseguenze: la disapplicazione delle norme vigenti in materia di termini di prescrizione comportava, infatti, per gli imputati l’impossibilità di avvalersi dell’avvenuta scadenza di tali termini. Si trattava di un caso di applicazione retroattiva di regole che incidevano sulla punibilità delle persone, in contrasto con il principio di legalità (art. 25 Cost.).
Quindi, la Corte costituzionale fu investita di due rinvii di costituzionalità volti ad accertare la contrarietà a principi fondamentali della Costituzione dell’interpretazione della Corte di giustizia.
La nostra Corte, però, anziché emanare direttamente una sentenza in cui veniva dichiarato un contrasto con un principio fondamentale della Costituzione, decise di rimettere la questione alla stessa Corte di giustizia, per chiarire in via pregiudiziale la portata della propria interpretazione in merito all’art. 325 TFUE contenuta nella sentenza Taricco.
Nella sentenza resa in via pregiudiziale dalla Corte di Giustizia, nota come “Taricco bis”, la stessa ha evitato di affrontare il problema dal punto di vista della clausola sul rispetto dell’identità nazionale citata dalla Corte Costituzionale. L’argomento centrale di tale sentenza, infatti, è stato il riparto di competenze, considerando che la materia in questione rientra nelle competenze concorrenti e che all’epoca dei fatti non erano state realizzate forme di armonizzazione nella stessa materia. Per questo motivo, conclude la Corte, l’Italia era libera di prevedere che nel suo sistema giuridico e norme sulla prescrizione formassero parte del diritto penale e quindi soggette al principio di legalità. La Corte ha anche aggiunto che gli Stati membri sono liberi di determinare i livelli di protezione dei diritti fondamentali, a condizione che non siano inferiori agli standard della Carta dell’UE.
Dunque, la sentenza, è palesemente mossa dall’intento di scongiurare una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale italiana. Considerando retrospettivamente il caso e la sua evoluzione al di là dei contenuti di merito, si può dire che la vicenda rappresenti un caso tipico di dialogo tra la Corte di giustizia e la Corte costituzionale di uno stato membro UE.
Articolo a cura di: Marica Cuppari