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Trainspotting: la desolazione dei ’90 scozzesi

Le innumerevoli pellicole realizzate col fine ultimo di approfondire il tema della droga presentano spesso un tasto dolente comune e frequentemente imprescindibile: la morale. Cosa succederebbe se, invece di soffermarsi su una tematica talmente delicata con atteggiamento tipicamente semplicistico e giudicante, un regista decidesse di affrontare diversamente la dipendenza, la depressione e il senso d’inadeguatezza? Il secondo lungometraggio di Daniel Boyle, Trainspotting, è un cult indiscusso del genere, che con ironia tagliente e a tratti grottesca, sceglie di non planare dall’alto sulla storia di un gruppo di poveri tossicodipendenti, ma piuttosto di sfondare la parete della compostezza e di calare lo spettatore nella vita di Mark “Rentboy” Renton e dei suoi “amici”.



«Choose life… But why would I want to do a thing like that? I chose not to choose life: I chose something else. And the reasons? There are no reasons. Who needs reasons when you've got heroin?»


Mark sceglie, nella prima scena della pellicola, di non scegliere: una vita, un futuro, una direzione; con sguardo disincantato ripudia i tradizionali canoni estetici e sociali, convinto di non necessitare di null’altro all’infuori della sua dose abituale di eroina. Boyle colpisce immediatamente lo spettatore per la crudezza e la credibilità dell’immaginario da lui ritratto. La desolazione della Scozia post-Thatcheriana si rivela il fondale perfetto per dipingere il dramma generazionale di un gruppo di giovani apparentemente invincibili, ma che si rivelano verosimilmente immaturi e impotenti di fronte ai grandi cambiamenti di una realtà globale e, paradossalmente, alienante. Mark, Sickboy, Tommy, Spud, Franco sono solo l’iconica traslitterazione di una Edimburgo superficialmente accogliente, ma che nasconde oltre quel velo di benessere ingannevole una verità opprimente. I protagonisti dell’opera sono facile preda del passivismo dilagante nelle classi subalterne delineate in quegli anni in Gran Bretagna, trovano rifugio nella droga e nel sentimento distruttivo rivolto verso se stessi e l’odiosa società che li circonda.


Il lungometraggio non è altro che una (relativamente) lunga parabola discendente, che ci permette di osservare il declino del gruppo e il loro effettivo distacco e disinteresse. Benché l’opera sia raccontata attraverso la voce di Mark Renton, ciò non deve trarre in inganno il pubblico: il narratore non è certamente il protagonista della vicenda messa in scena da Boyle né l’eroe da lieto fine assicurato; Mark è lo specchio dell’indifferenza e della freddezza che contraddistingue il gruppo ed evidenzia, molto più del cinico Sickboy e del folle Franco, il ruolo di collante che la droga interpreta nelle loro vite. Nonostante la pellicola mascheri e legittimi inizialmente l’allontanamento del “Rentboy” dagli amici come unica soluzione per sfuggire al tunnel dell’eroina, la spietata realtà è ben diversa: le azioni del narratore sono tanto spregevoli e incoscienti quanto le disattenzioni che Simon “Sickboy” rivolge alla figlia neonata, causandone la morte. Mark è cagione (in)diretta della conclusione del rapporto fra Tommy e la compagna Lizzie, non esita nel vendere la prima dose di eroina all’amico fraterno e non cerca neppure di opporsi alla depressione che gli tarperà le ali. Renton cerca di costruire una nuova esistenza a Londra e quando la vecchia vita bussa alla porta, l’unica via d’uscita è allontanarsi ulteriormente, lasciando che la pellicola, la quale non potrebbe concludersi diversamente, giunga al suo epilogo agrodolce.


«First, there's an opportunity. Then... there's a betrayal.»


Come recita Spud nel seguito “T2 Trainspotting”, certamente non brillante quanto il suo predecessore, bensì caratterizzato da una riflessione decisamente nostalgica e disattenta. Prima vi è un’opportunità, alla quale non può che seguire il tradimento.


«Now I've justified this to myself in all sorts of ways. It wasn't a big deal, just a minor betrayal. Or we'd outgrown each other, you know, that sort of thing. But let's face it, I ripped them off - my so called mates.


[…]


So why did I do it? I could offer a million answers - all false. The truth is that I'm a bad person. But, that's gonna change - I'm going to change. This is the last of that sort of thing. Now I'm cleaning up and I'm moving on, going straight and choosing life. I'm looking forward to it already. I'm gonna be just like you.»


Mark deruba i suoi cosiddetti amici e fugge, pronto a divenire ciò che sino a quel momento criticava: vuole scegliere la vita, vuole essere come gli altri, conformarsi alla triste società che lo circonda, una matrigna che gli impone il tradimento per un bene superiore. L’opera si conclude inquadrando il sorriso stampato sul volto di Mark, distante anni luce dall’eroina, le convulsioni, l’assuefazione e la dipendenza, con un enigmatico futuro di fronte a sé, che Boyle avrebbe fatto bene a non rivelare con un seguito accessorio e superfluo.


Articolo a cura di: Antonino Palumbo



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