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Tra “La camera di Vincent Van Gogh ad Arles” a quella di casa nostra. Buona permanenza

Non è il campo dove la pittura cresce, non è lo studio del pittore bensì la stanza dell’uomo nelle sue affascinanti fragilità. Non è il luogo dove lavora, bensì la camera in cui abita. Non c’è spazio per la luce esterna che rimane in sala d’attesa fuori dalla finestra che separa il mondo dall’io, l'apparenza dall’essenza, il verosimile dal vero. Ci sono semplicemente luci, che, più luminose di altre luci, inglobano nell’ombra le seconde. Il sole, in questo caso, non riesce a farsi spazio nell’intimità del pittore, il quale decide di affidare ad umili oggetti, il delicato scopo di rendere visibile un ambiente che senza effetti speciali dovrebbe accontentarsi del buio. Uniformemente spalmata, questa luce viene alimentata dal desiderio pulsante di non vedere un destino apparentemente già scritto, trasformarsi in destinazione, ma al contrario, di constatare una natura che lotta con tutte le sue forze per mostrarsi. Così peculiare e potente, altro non è che la voce degli oggetti che abitano quella stanza e che, invece di lasciarsi ascoltare o di lasciarsi guardare, si caricano osservando ed osservandosi. I loro occhi sono costituiti da colori primari che, sfruttando le varie combinazioni con i propri complementari, creano tonalità magnetiche come quel rosso scarlatto che riempie la coperta posta sul letto o quel blu che colora la caraffa sul tavolino.



Il pittore, attraverso il suo migliore strumento di comunicazione, la pittura, ci dimostra come un essere inanimato possa essere molto più vivo di un essere vivente. Inalare ossigeno non significa respirare ed i contadini protagonisti del quadro “I mangiatori di patate” del 1885 l’avevano capito. Essi infatti, alle prese con le loro umili faccende, risiedono in una dimensione emotiva estremamente ridotta che corrisponde all’infelicità che provano a causa della condizione di degrado che ha spento gran parte del loro fuoco.


Oggi, dopo un anno in cui la libertà ha allentato il tiro per lasciar passare l’emergenza sanitaria, ci ritroviamo a fare i conti con noi stessi. Siamo ancora in quella stanza, o forse in una nuova, poco importa, con un +1 da aggiungere alla cifra che ci portiamo addosso. Siamo ancora gli stessi, solo che ora lo sconvolgimento dettato dalla novità ha lasciato il posto alla speranza che finisca quella che prepotentemente vorrebbe essere la normalità. Siamo ancora gli stessi, ma con la ormai radicata consapevolezza che l’unico antidoto per affrontare attivamente gli imprevisti della vita sia continuare a ri-conoscerci in noi stessi. Le scale dell’esistenza sono troppo instabili per auspicare che qualcuno, passando per caso, ci salvi dal caos.



Siamo ancora gli stessi eppure ora, quando ci sentiamo soli perché oggettivamente lo siamo, non rispondiamo al buio con il buio nascondendoci sotto le coperte, ma afferriamo l’oscurità con la luce, lasciandoci osservare da chi, in tutto questo tempo, ci è rimasto sempre accanto. Gli oggetti ci guardano, scrutano azioni e reazioni, sorreggono sorrisi e lacrime, alleviano il dolore e condividono i nostri successi. Sono però anche piuttosto silenziosi e discreti, perciò richiedono di essere colti con l’adeguata sensibilità di chi tra gli oggetti è in grado di individuare quelli viventi e di chi tra gli uomini è in grado di riconoscere quelli inanimati. In tanti casi non è l’esterno sbagliato ma è la nostra percezione ad essere cieca. E questo, oggi forse, ci è più chiaro.


Van Gogh ha creato tre versioni diverse del medesimo soggetto per esaltarlo, oggi in tre differenti luoghi: la prima nel 1888 conservata al Van Gogh Museum di Amsterdam basata sulla contemplazione diretta, la seconda e la terza, di un anno dopo, rispettivamente all’Art Institute di Chicago e al Museo d'Orsay di Parigi basate sul ricordo, sulla nostalgia e sulla volontà di riparare in seguito ad un danneggiamento della prima dovuto ad una inondazione. Il pittore, quando dipinge i quadri del 1889 si trova nella struttura sanitaria di Saint-Paul-de-Mausole e sente la necessità di aggrapparsi al conosciuto per ritrovare quel sentimento di pace che solo la propria casa può far provare.


"Avevo voluto esprimere un riposo assoluto per mezzo di tutti questi diversi toni".


Come la camera da letto di Van Gogh ha visto il suo abitante scrivere le innumerevoli lettere al fratello Theo, sperare di rivedere l’amico Gauguin proprio in quella “casa gialla” e fantasticare su come quelle mura potessero diventare un atelier per avanguardisti, nello stesso modo dobbiamo approcciarci alla nostra stanza e ai suoi custodi che, proteggendoci da questa complessa ed unica parentesi di vita, ci preparano al futuro.

Non possiamo sprecare questa occasione perché dopo potrebbe essere troppo tardi. La camera nella quale in questo momento ci troviamo è sempre quella o forse no. Noi siamo ancora gli stessi… o molto probabilmente no.


Articolo a cura di: Emanuela Braghieri



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