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Sulla bellezza e sul disinteresse estetico

Parlare di bellezza è molto complesso e pericoloso. Si tratta per lo più di muoversi in un terreno impervio, una sorta di idilliaco paradiso in cui ogni cosa può essere decantata come bella: dalla Primavera di Botticelli all’orinatoio di Duchamp, fino alla più recente TV spazzatura. Tentare di dare una definizione di bellezza appare già quindi come una impresa eretica, incapace di cogliere l’avvento di una società post-moderna in cui, come affermerebbe Alain Finkielkraut: “lo stesso odio per la cultura è divenuto a sua volta culturale”.



La cultura è in pezzi!” quindi dice Finkielkraut. Io aggiungo che anche la bellezza si è ormai frantumata disperdendosi in una moltitudine di schegge che compongono la nostra quotidianità. Esiste ancora un margine in tutto ciò per formulare una definizione di bellezza? Io credo di sì e cercherò di mostrarne qui, in breve, la possibilità.


Partiamo da un concetto chiave: la bellezza (come la bruttezza) è relativa. Esiste una categoria assoluta secondo cui in ogni tempo e in ogni spazio si è riconosciuto qualcosa di bello; ma questo qualcosa ha assunto un volto e delle sfumature differenti con il correre degli anni. Come ci ricorda Umberto Eco: “ciò che ritenuto bello dipende dall’epoca e dalle culture”.


Ciò ci permette di non cadere in un grave errore, comune ai più: il voler sancire ciò che è bello o meno in base ai criteri estetici della propria società. Come ho già detto noi viviamo in un universo culturale in cui ogni cosa può essere spacciata come bella (questo è spesso frutto di quella che Arendt chiamava bulimia dei consumi) ed è proprio in virtù di questo, che taluni si sentono legittimati a criticare ciò che non comprendono e che quindi disprezzano nello spazio e nel tempo. Tuttavia ciò che è bello per noi non lo era in passato e ciò che era ritenuto bello in passato non lo è per noi. Molto banalmente ad esempio, in Francia, era ritenuto ideale di bellezza per le donne possedere il cosiddetto collare di Venere (questo potremmo dire fino circa alla fine del’800). Difficilmente i rigidi canoni di bellezza odierni, imposti dalla moda e dal consumo, potrebbero asserire lo stesso.


Certo la bellezza non è solo relativa alla cultura e all’epoca ma anche alle singole scelte dell’individuo, le quali sono figlie di una componente bio-psichica da una parte e dall’habitus bourdieuano, in cui heideggerianamente ognuno di noi viene gettato, dall’altra, Teniamo conto che quest’ultimo non ha a che fare solo con la cultura e con l’epoca ma anche ad esempio con il contesto famigliare, scolastico o lavorativo.


L’ideale di bellezza di una società è però spesso il prodotto, più che dall’unione delle componenti bio-psichiche e dell’habitus, di uno schema collettivo sedimentato (ma mutevole nel tempo) in cui differenti rappresentazioni convergono nel formare un terreno di idee condiviso. La storia della bellezza occidentale è infatti ricca di sfumature mirabili, figlie di tale schema. Da Platone a Pacioli la bellezza è proporzione, a cui si aggiunge successivamente la claritas e l’integrità. La bellezza diviene poi il sublime con Turner, e infine con l’arte delle avanguardie e l’arte astratta gli stessi canoni estetici smettono di essere rispettati.


Che cos’è ora la bellezza? Sembrerebbe che sia mutata in quella che Baudrillard chiamava la tradizione del nuovo in cui ogni cosa può essere ridotta alla mercé del consumo ed essere per questo declarata come bella. Come afferma ancora magistralmente Eco: “Un visitatore dal futuro (…) dovrà arrendersi di fronte all’orgia della tolleranza, al sincretismo totale, all’assoluto e inarrestabile politeismo della bellezza”.


In mezzo a quest’orgia è quindi possibile ancora dire che cosa distingue la bellezza? A mio parere sì. Tale soluzione è sempre stata sotto i nostri occhi ma pur sempre celata da quella che Weber chiamerebbe Razionalità strumentale. La bellezza è disinteresse. Solo laddove rinunciamo a possedere, dove poniamo una distanza tra noi e la cosa desiderata per timore di ferirla, dove ci scopriamo spettatori e non più soggiacenti al giogo di un eterno solipsismo, lì riposa la bellezza.


Ogni realtà vista da una certa distanza può apparire bella, malauguratamente anche la guerra. È nell’irruzione del possesso e nel capolino della vita e dell’esperienza che la bellezza si dissolve sotto il peso della strumentalità. Per questo la nostra vita dovrebbe essere vissuta, come insegna una tradizione filosofica che da Platone giunge a Freud e Bauman, nel precario equilibrio tra l’assenza di pulsioni e il possesso mortale. Come afferma ancora Eco: “In questa distanza sta l’esile filo che separa l’esperienza della bellezza da altre forme di passione”.


Solo lì, nello squarcio del disinteresse estetico, dorme come una bambina innocente, la bellezza.


Articolo a cura di: Paolo Fisichella


Si consiglia per approfondimenti:

Alain Finkielkraut, La sconfitta del pensiero, Nuove idee, Milano 1987

Umberto Eco, Sulle spalle dei giganti, La nave di Teseo, Milano 2017



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