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Spedizione Franklin: uomini spariti nel nulla (pt.2)

Come avvolti da una nebbia nefanda, i marinai, gli ufficiali e i comandanti della spedizione Franklin sembrano essere stati rapiti da essa e inghiottiti in chissà quale luogo. Non si hanno loro notizie per molto tempo, finché all’alba del 1848, a partire dall’appello della moglie di Franklin, Lady Jane Griffin Franklin, l’Ammiragliato della corona inglese organizza una spedizione di ricerca divisa su tre fronti.


Immagine tratta da sito www.osservatorioartico.it

Una delle più profittevoli è sicuramente la ricerca guidata via terra da John Rae, a fronte delle altre due via mare. Egli nei pressi di Pelly Bay (l’attuale Kugaaruk) incontrò un Inuk, un indigeno, che riferì di aver visto una trentina di uomini bianchi che erano morti di stenti presso la foce del fiume Back e che avevano praticato del cannibalismo, tanta era la loro disperazione. Inoltre, Rae, poté vedere degli oggetti che gli Inuit gli mostrarono e che subito egli ricondusse come appartenenti agli uomini della spedizione Franklin. In particolare, trovò dell’argenteria appartenente a Fitzjames e Crozier.


Si decise in seguito di approfondire la ricerca lungo il fiume Back, ma ciò non portò a conclusione alcuna. La Gran Bretagna, che qualche tempo prima aveva promesso un premio di 20.000 sterline a qualsiasi fregata di qualsiasi nazione, che avesse trovato tracce della spedizione, ora si limita a dichiarare la morte in servizio di tutti i partecipanti, il 31 marzo 1854. D’altro canto, la moglie di Franklin non si dà per vinta e a proprie spese organizza un’altra spedizione di ricerca, al cui comando c’è Francis Leopold McClintock. Egli, alla guida della nave Fox, rinvenne nel 1859 un messaggio, che consuetudinariamente si lasciava per dare notizie delle spedizioni, ove alla data del 1847 si diceva “Sir John Franklin comanda la spedizione. Tutto bene”. Molto più macabro, invece, un secondo messaggio trascritto sul lato dello stesso foglio del primo. All’altezza del 1848 si dice che entrambe le navi erano rimaste incagliate nei ghiacci, che equipaggiamento e viveri scarseggiavano e che ci si era mossi alla ricerca di un luogo migliore per riprendere la via di casa.


Iniziarono così a venir fuori i primi scheletri appartenenti alla spedizione, alcuni in uno stato particolare, con addosso degli oggetti inusuali per chi cerca di scappare dalla morte per assideramento, come per esempio fazzoletti di seta, pantofole, pettini e libri. Molto più interessanti e proficue furono le spedizioni scientifiche condotte all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, anche perché gli strumenti forensi a disposizione hanno potuto chiarire molto meglio quale fu la sorte di questi uomini. Morirono d’inedia? Furono attaccati da orsi polari? Gli Inuit li hanno uccisi, vedendoli come invasori? Oppure, come anche alcuni hanno pensato, qualcosa di soprannaturale li ha fermati?


Owen Beattie, professore di antropologia dell’Università di Alberta, guidò il Franklin Expedition Forensic Anthropology Project, che si occupò di indagare i corpi dei superstiti al fine di trarne indizi sulla loro morte. Evidenti, dai segni lasciati sulle ossa, furono gli episodi di cannibalismo. Si rilevarono carenze di vitamina C, probabilmente dovute allo scorbuto, tipica “malattia del marinaio” e cosa particolarissima fu la presenza, sempre nelle ossa, di una quantità di piombo dieci volte superiore alla norma. Ricordate nello scorso articolo quando vi dissi di tenere a mente le lattine, prodotte in fretta, dove era contenuto il cibo? La frettolosità della produzione causò la caduta del piombo per la chiusura, all’interno della lattina. Questi uomini per anni hanno mangiato cibo con all’interno il piombo e questo, ormai ben presente nei loro corpi, pian piano li andava divorando.


Sta di fatto che tra le intemperie, il gelo, il piombo nel cibo e lo stesso consumo di carne umana, nessuno di questi uomini è potuto tornare in patria a raccontare ciò che ha vissuto. Era destino che andasse così? Non è una domanda che ha un valore storico, ma è comunque un dubbio da porsi.


Articolo a cura di: Marco Mariani

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