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Social World Film Festival 2022, intervista a Pupi Avati: “Con Dante ho giocato d’azzardo”

Conferito il premio alla carriera “Golden Spike Award” al regista bolognese Pupi Avati durante la dodicesima edizione del Social World Film Festival, la Mostra Internazionale del Cinema Sociale per la direzione artistica di Giuseppe Alessio Nuzzo.


Il maestro Pupi Avati è un uomo che ha conosciuto la gavetta, il peso dell’umiliazione e del rifiuto e, proprio per questo, è un artista che con resilienza si è messo in gioco ed ha conquistato i suoi traguardi ed incassato i suoi successi. Si è raccontato con umiltà e sincerità, lasciando alle nostre pagine non solo delle lezioni di cinematografia ma anche di vita.



Pupi Avanti parla del suo film in uscita “Dante” e di “Lei mi parla ancora”


Pupi Avati ha raccontato come ha organizzato il lavoro nella realizzazione di “Dante”, film in uscita a settembre e ha motivato la scelta di tale personaggio storico e letterario come protagonista della pellicola: “Dante è per il prestigio e peso del personaggio che andrò a raccontare, per il livello produttivo e l’impegno che ho impiegato una sorte di summa del mio lavoro – ha affermato – Quando 20 anni fa non mi fecero fare questo film mi rammaricai molto e non avrei dovuto farlo perché in realtà questi anni non sono passati invano ma sono serviti sicuramente per rafforzarmi e per approfondire la ricerca storiografica. Penso di aver rappresentato Dante con grande somiglianza e ho compiuto un lavoro di intuizione visiva, curando tanto l’immagine e la fotografia. Sono consapevole di essere uno dei primi ad affrontare Dante perché è un personaggio che spaventa. Io dico una cosa che penso ma che non ho mai detto che Dante mi abbia voluto bene e che sia stato contento di questo film. Esce finalmente un Dante seducente come essere umano. L’ho pensato perché l’ho sentito vicino. È uno dei personaggi più straordinari mai esistiti. Questo film è una mia dichiarazione d’amore nei suoi riguardi. Il cinema è un gioco d’azzardo ed io con “Dante” ho detto “banco”! Ho puntato tutte le fish che avevo”.


Poi il focus è passato sul film “Lei mi parla ancora”, proiettato nell’arena Fellini del festival. Un film che lo rappresenta e che esplica perfettamente la sua concezione dell’amore: “La genesi di questo film è singolare. Nella mia lunga filmografia ci sono davvero poche opere ispirate a vicende altrui e questo film è una di quelle. È ispirata al libro che parla della storia dei genitori di Vittorio Sgarbi e si intitola proprio “Lei mi parla ancora”. Un giornalista mi consigliò di leggerlo perché riteneva la storia adatta a me. Parla appunto del signor Sgarbi che, rimasto vedovo dopo 60 anni di matrimonio, non riesce ad accettare la perdita della moglie – ed ha continuato – Io non ho vissuto in prima persona questa esperienza ma conoscerla mi ha fatto captare proprio quel per sempre che è tipico dei bambini. I più piccoli pensano che ciò che vivono resti per sempre invariato, non sanno che il tempo corrode e modifica le cose. Lo si capisce crescendo. Diventando anziano ho capito che nella circolarità della vita alcune emozioni infantili si ripresentano ed una di queste, per me, è proprio il per sempre. Il per sempre era una locuzione che negli anni cinquanta si usava, basti pensare al matrimonio. Da diversi decenni non si usa più. Allora l’idea di un ritorno di questo per sempre mi ha fortemente sedotto, tanto da farmi mettere in contatto con il ghostwriter e farmi raccontare tutti i retroscena della storia”.


Così ha commentato il rapporto con i protagonisti del cast artistico del film. Attori con cui ha avuto degli alti e bassi e con cui ha infine trovato l’intesa umana e professionale: “È stata un’emozione unica avere Stefania Sandrelli sul set, è una vecchia e cara amica. Nel 1973 c’è stato un contenzioso tra me e lei perché rifiutò una proposta lavorativa ma si è fatta perdonare. Pure Renato Pozzetto si allontanò da me ma quando gli proposi il ruolo scoppiò a piangere perché era la storia sua e di sua moglie e da lì ci ritrovammo. L’amore è una forza propulsiva, non vedo altra alternativa nella vita. L’amore occupa grande parte della nostra vicenda umana. Qualunque tipo di rapporto è determinante. Come fare a capire se una persona è quella giusta? Non saperselo spiegare. Se c’è una spiegazione, non è amore. L’amore è irragionevole. Io trovo Dante attualissimo, perché descrive l’amore con una dovizia sublime”.


Gli inizi difficili e la fuga da Bologna


Pupi Avati ha volto uno sguardo al passato, agli anni degli esordi giovanili e ha raccontato ricordi spiacevoli con la calma e la minuziosità di un professionista anziano che accetta ma che non dimentica: “Il film a cui sono più è legato è il primo “Balsamus, l’uomo di Satana”. Lo lanciammo nelle sale cinematografiche nel 1968, un anno storico di cambiamenti per il mondo occidentale. Tutto era possibile. Era il coronamento di un sogno eppure fu un disastro, feci perdere 160 milioni ad un imprenditore. Lui mi diede altri 110 milioni per fare un secondo film dal titolo “Thomas, l’indemoniato” ed andò peggio del primo – ed ha iniziato a spiegare come fosse stato preso di mira nella piccola realtà provinciale bolognese – Il gruppo di lavoro si sciolse e a Bologna stapparono lo champagne perché le realtà di provincia sono spietate e non tollerano chi esce fuori dai canoni. Bologna è una città cattiva e che non perdona. Venivo vessato da tutti. Ricordo che cambiai bar, mi recai ad uno dal nome “Niagara”. Delle persone all’interno mi fecero uno scherzo telefonico e mi dissero che vi era Dino De Laurentiis. Partì un grande pernacchio di gruppo. Io la sera stessa caricai i miei figli e mia moglie in macchina e lasciai per sempre Bologna e mi trasferii a Roma. Fui disoccupato per quattro anni – ed ha ammesso – Sono vicende professionali complicate. Bisogna pensare che ci sia sempre un lieto fine. Io lo sto ancora aspettando. Tutti sono convinti di aver fatto il massimo, io penso che avrei potuto fare di più. Fino ad oggi al cinema ho dato molto di più di ciò che ho ricevuto. I miei figli e mia moglie hanno pagato le mie assenze e le mie tensioni quando un film non andava bene”.


Il maestro Avati ha resistito. Per lui il cinema è rischio e non si è mai risparmiato nel mettere la posta in palio. “Dante”, del resto, è la sua ennesima scommessa con se stesso e con il pubblico. Ad oggi ama che il suo cinema venga bollato “alla Pupi Avati”, perché ciò lo ritiene un segno di riconoscimento: “Esistono migliaia di registi al mondo, trovare la propria unicità è difficile”. E con queste parole ha incentivato i più giovani a mettersi in gioco: “Dovete sentire dentro di voi l’urgenza di sapere chi siete, sentire che vi aspetta qualcosa di straordinario. E sappiate che i sogni che si realizzano sono quelli più coraggiosi, improbabili, quelli che non hanno un piano B”.


Il cinema resterà per lui sempre un luogo sacro e, appunto per questo, ha concluso il suo discorso affermando di essere scettico verso le piattaforme streaming: “Il cinema sta cambiando a causa dei canali distributivi alternativi alle sale che sono appunto le piattaforme streaming. Io penso che i film che non escono al cinema siano penalizzati. Il film in streaming può essere interrotto e visto con disattenzione. In sala cinematografica va visto tutto di un fiato senza interruzioni o distrazioni e sicuramente con una qualità del suono migliore”.


Foto di copertina scattata da Fabio Punzo


Articolo a cura di: Emanuela Francini

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