Ritratto di una donna incompresa: Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi
“Un’ora sola ti vorrei per dirti quello che non sai…” Queste le parole di una canzone che sembra essere dedicata a qualcuno ormai troppo lontano, irraggiungibile. Su queste note Alina Marazzi ci trasporta nella storia di Liseli, sua madre, venuta a mancare quando la regista era ancora una bambina.
Un’ora sola ti vorrei è un film quasi interamente composto da found footage, in particolar modo da filmini di famiglia girati dal nonno della regista affiancati a poche altre riprese ex-novo. La gestazione del documentario è stata molto lunga e complessa perché frutto di un processo terapeutico da parte di Alina Marazzi che proprio grazie a questo documentario ha avuto la possibilità di elaborare un trauma del suo vissuto familiare: sua madre, infatti, si tolse la vita nel 1972, all'età di 33 anni. Seguendo l’idea di Paul Ricoeur dell’invilupparsi della storia di ciascuno di noi in quella di numerosi altri, Alina Marazzi ricostruisce la storia di Liseli mettendosi alla ricerca delle sue tracce incastrate nelle storie degli altri, imparando a conoscerla davvero per la prima volta. In un gioco di rispecchiamenti con la madre e la nonna, la regista ritrova anche se stessa grazie alla scoperta di quel tassello del suo passato che continuava a gettare dubbi e ombre sulla sua esistenza.

Immersa nello scintillio della Milano bene del secondo Novecento, nipote del fondatore della nota casa editrice Hoepli, felicemente sposata con due bambini, Liseli era divorata da un mostro invisibile. L’altalena, che si fa emblema di questa sua condizione, ritorna spesso nel corso del film con le sue oscillazioni visive e acustiche: il cigolio riproduce metaforicamente gli sbalzi d’umore di Liseli, dovuti alla sindrome maniaco depressiva della ciclotimia. Sin da bambina mostrava un forte senso di inadeguatezza e alienazione, testimoniato dalle pagine di diario in cui scriveva di aver bisogno di parlare con qualcuno, ma anche dell’impossibilità di avere un dialogo coi suoi genitori che reputavano i suoi turbamenti dei meri capricci.
«Quando la mamma dice che sono antipatica a tutti ci credo e sto male».
Nel corso del documentario possiamo osservare come l’educazione autoritaria l’aveva portata a convincersi di essere costantemente sbagliata, un padre tanto dispotico che le rimproverava persino i soldi spesi per le case di cura, e l’eterno confronto con la madre idealizzata e innalzata a modello di perfezione contro il quale Liseli, con le sue insicurezze, non sarebbe mai riuscita a competere. Lei, che non si sentiva all’altezza di nessun ruolo, né quello di figlia o di moglie, madre, donna addirittura, cosa poteva mai fare?
«Sono cresciuta in quello che sembrava essere un mondo da favola, eppure le cose non andarono proprio come nelle favole».
Il nonno della Marazzi riprende – come tutti – occasioni gioiose come matrimoni, compleanni, gite, vacanze, occasioni in cui tutti sono felici. Eppure, mentre vengono mostrate immagini di persone che ridono divertite, la voce fuori campo di Alina Marazzi, che in un gioco di sovrapposizioni interpreta quella di sua madre, racconta di un incubo riguardante la guerra: il mondo delle favole che si vuole raccontare nei filmini di famiglia si scontra con la realtà. Pur essendo profondamente diverse tra loro perché appartenenti a epoche diverse, tutte le riprese avevano un comune denominatore: erano il prodotto del punto di vista di un uomo che guardava la sua epoca e i suoi affetti, e quest'uomo era il padre di Liseli. Gli sguardi in macchina della moglie e della figlia mostrano complicità: le due donne sono colte in inquadrature ricercate, le riprese bellissime e piene di fascino, tuttavia, conoscendo l’intera storia si scopre che la felicità dissimulata nelle immagini è tutta falsa. Emerge un uomo che non è mai stato in grado di cogliere l'essenza al di là dell'apparenza. È questa la funzione del montaggio di Un'ora sola ti vorrei, smascherare la felicità forzata dietro la macchina da presa. Per tutta la vita il nonno di Alina Marazzi ha filmato due donne senza riuscire però a vederle.
«Sono sempre uguale e sempre diversa».
Il documentario fa luce sull’oscurità di una donna insofferente ai canoni previsti da una società ancora troppo bigotta. Liseli, una donna che non poteva essere ridotta soltanto al gesto estremo che ha posto fine alla sua tormentata vita. Ne vediamo un primo piano mozzafiato, di un’estetica delicata, quasi eterea: è immersa nei fiori e indossa un cappello di paglia che le proietta delle ombre addosso mentre si volta sorridente verso la camera, guardandosi intorno. Il montaggio fa sì che il suo sguardo incroci la Liseli di ogni età, e il rallenty prolunga questa sequenza il più possibile, assecondando il desiderio di sua figlia che non finisca mai. E infine, la Liseli diciassettenne che sorride allegra all’obiettivo mentre tenta di annodarsi un foulard attorno alla testa senza riuscirci a causa del troppo vento. È di una bellezza sconcertante e assolutamente allegorico il fatto che le infiltrazioni sulla pellicola diano l’effetto di colori sbiaditi, che vanno e vengono. Come in un sogno, la sua immagine evanescente scompare gradualmente, mentre continua a ridere. Fantasma di una donna splendida, che non è stata compresa.
Articolo a cura di: Concetta Pia Garofalo