Ricchi d’arte: Giovanni Anselmo e l’Arte povera
Si dice che gli incontri migliori siano quelli inaspettati. Non so se questa osservazione sia dettata dall’ardente desiderio di cambiamento che enfatizza ogni cosa o se sia realmente così. Sta di fatto che, due anni fa, esattamente il 21 agosto 2019, tra il maestoso e labirintico MART, il Museo di Arte moderna e contemporanea di Rovereto e Trento, la mia curiosità mischiata ad una dolce sensazione di spaesamento, mi ha portata a ritrovarmi inerme dinnanzi ad un’opera tanto immensa quanto invadente.

Ciò che ha attirato la mia attenzione è stata una tela di quasi tre metri per quattro che riproduceva, più semplicemente, un uomo girato di spalle in movimento. Non c’è un volto, un punto di riferimento, un colore, un oggetto, un soffio, che plachi il senso di vuoto che dilaga nell’osservatore inizialmente perplesso. Che cosa significa? Dove si sta dirigendo l’uomo misterioso? Senza pensarci un secondo, provo a raggiungerlo e ad un certo punto, quando la mano sta per permettermi di avvertirne la consistenza corporea, l’uomo scompare. L’inconscio ormai ha superato la componente razionale e mi rendo conto di essere giunta ad un punto di non ritorno. Sono immersa in un apparente nulla e non mi capacito di come il vuoto possa pesare così tanto. Le gambe continuano ad avanzare indipendenti dal cervello e nel momento in cui decido di godermi il momento improvvisamente il contenuto colma la forma: il terreno a poco a poco si colora di verde, sento una leggera brezza accarezzarmi il volto ma ancora non mi capacito del motivo per cui non riesca a prendere possesso del mio corpo. Ho il controllo solo della parte superiore e ciò che mi è consentito è esclusivamente ruotare il busto. Ci provo. Vedo ad una distanza che non mi permette di coglierne l’identità, un oggetto scuro sorretto da un’asta. Ritorno ad assecondare la direzione del moto e mi chiedo come sia possibile che abbia ancora tutto questo fiato. Un senso di inspiegabile libertà disegna le mie pupille che si allargano ad ogni battito di ciglia. Fino a quando, come un improvviso bagliore, la vera realtà ha interrotto questo viaggio sensazionale.
Se George Bernard Shaw non erra quando scriveva che si usano gli specchi per guardarsi il viso e l’arte per guardarsi l’anima, che cosa tentava di comunicarmi questa opera? Così come il buon giurista per comprendere la norma rintraccia la ratio per la quale è stata creata dal legislatore, nello stesso modo ho provato a ricostruire il sapere dell’opera sopra il saputo dell’immagine. L’artista si chiama Giovanni Anselmo e fin dagli esordi della sua carriera artistica si fa portavoce del movimento artistico dell’Arte povera. Con questo termine, coniato dal critico Germano Celant nel 1967 in occasione di una mostra a Genova, si fa riferimento ad un gruppo di artisti italiani che a partire dalla fine degli anni ‘60 ha iniziato a porre la povertà come sinonimo più nobile di ricchezza. Non c’è dimostrazione più grande di aver compreso un oggetto, dal più rilevante al più insignificante, quando lo si riesce a collocare in una posizione di superiorità rispetto a tutto il resto.
Il contesto, per una volta, si abbassa al volere del testo, indipendente dal contenuto ed assume diverse forme e sfumature. I protagonisti sono pescati dagli oggetti e dai soggetti più comuni che ci circondano: corde, stracci, rame, assi di legno, lastre di pietra creano combinazioni che non si manifestano nelle opere, bensì nel concetto che si cela dietro ad esse e che richiede di essere scoperto tramite un passaggio interpretativo. È una materialità che dimentica l’astrattismo, è un’ artigianalità che dimentica il design tecnologico ed industriale del minimalismo americano contemporaneo. Nelle sculture si sfidano le leggi della fisica utilizzandole a proprio piacimento nella consapevolezza che la conoscenza è la sola e possibile alleata della sperimentazione. Nelle tele si fanno dialogare tra loro corpi dimensionalmente diversi con l’obiettivo di mettere a tacere l’ostinazione che l’uomo nutre nel voler governare l’infinito: i vuoti fanno parte dell’Essere e gli permettono di evolversi. Non rifuggiamoli.
«I miei lavori - dice Anselmo - sono veramente la fisicizzazione della forza di un'azione, dell'energia di una situazione o di un evento».
Quell’autoscatto che si è tramutato in opera d’arte, riproduce l’artista nel 1971 che corre verso l’obiettivo da lui stesso posto precedentemente in un punto del prato prima di aver azionato la modalità dello scatto ritardato nella macchina fotografica posta sul cavalletto. L’uomo, riferimento di se stesso, corre verso quel punto non precisamente identificabile affinché l’istante lo colga nella posizione desiderata. Non sa se ci riuscirà, ma non si arresta. Ecco come il desiderio diventa l’energia elettrica che scuote gli animi di tutti coloro che si lasciano coinvolgere per caso o per scelta dall’arte. Quando un artista riesce a creare un collegamento diretto con l’osservatore tramite il suo linguaggio esclusivo, senza alcuna traduzione o aiuto esterno, ha svolto esaurientemente il suo compito. Ed è facile capirlo… Quel giorno, dopo aver attraversato quel luogo con la mente, mi sono avvicinata alla targa che custodiva la descrizione per memorizzarne il titolo:
“Entrare nell’opera - Inclusione nell’infinito organico e vitale del mondo”.
Articolo a cura di: Emanuela Braghieri