Pablito
Un anno maledetto per tante, tantissime cose e anche per il calcio, il 2020.

Se n’è andato anche Pablito, l’eroe a sorpresa del mondiale 1982, l’incarnazione di come si possa rinascere dopo le sconfitte e le delusioni, un uomo dal fisico gracile che sapeva mettere a frutto al massimo la sua intelligenza calcistica, trovandosi sempre nel posto giusto al momento giusto.
I suoi tiri sembravano sempre banali, poco pericolosi, ma alla fine raggiungevano il loro obiettivo e gonfiavano come per miracolo la porta degli avversari. Quando faceva goal di testa si alzava in aria di pochi centimetri, sapeva di non poter competere con i difensori alti due metri, e sceglieva altezze a lui confacenti, lasciando di stupore anche i compagni.
Aveva un viso simpatico, da toscano, ma non da toscanaccio, un po’ timido, schivo, ma sempre pronto a rispondere con gentilezza a ogni domanda.
Se n’è andato senza clamori, con il passo felpato, che sbucava da dietro, come a dire ci sono e non ci sono, ma tenetevi pronti che arrivo all’improvviso e vi porto un po’ di allegria malinconica.
Sì, nei suoi occhi brillava sempre quella malinconia che lo rendeva umano, ne faceva un campione con il quale molti potevano identificarsi e di cui nessuno era geloso.
Da ragazzo, ai tempi d’oro di Rossi, qualcuno diceva pure che gli somigliavo. Io, tifoso di una squadra avversaria, ne ero ugualmente orgoglioso, perché lui sembrava non appartenere a nessuna squadra, ma solo all’amore degli italiani. Quando fu coinvolto nel brutto episodio del calcio scommesse, il suo cruccio più grande, infatti, era stato quello di aver tradito la fiducia dei molti che gli volevano bene e il suo mondiale in Spagna fu soprattutto un risarcimento morale verso tutti coloro che aspiravano alla una rinascita, che poi era la loro rinascita, il loro riscatto.
Dopo Maradona se n’è andato anche Pablito, un eroe semplice, con i suoi capelli grigi ed un suo guizzo a scavalcare rocciosi avversari e cercare la porta che come d’incanto si spalancava ai suoi piedi.
Articolo a cura di: Marco Tempestini