Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi - Cesare Pavese
Un giorno è fatto di infiniti attimi, un attimo è una frazione indeterminata ed indeterminabile del giorno. Il nostro cervello, custode di una razionalità priva di specifica logica, si concentra solo su questa piccola parte dell’intero, imprimendola nella memoria.
È una riflessione apparentemente tanto banale da risultare quasi retorica, eppure così vera, la cui rispettiva citazione continua a respirare nell’opera di Cesare Pavese “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”.
Ci insegnano a programmare umanoidi, a guarire malati, a costruire ponti, a riparare oggetti e cuori finiti in mille pezzi… Ma si può imparare a vivere? Probabilmente sì, con una deroga esclusiva però: imparare a vivere presuppone la conoscenza della vita ed essa, forse, riusciamo a decifrarla solo dopo aver vissuto. Credo sia come quando arriva un figlio: la tua vita si sovrappone, anche solo parzialmente, alla sua e imparare a vivere diventa imparare a crescerlo e quindi a crescere. Questa scoperta ha valore retroattivo, tuttavia, ne entriamo in possesso solo a posteriori. Crediamo di poter modellare il figlio e la vita a nostro piacimento commettendo un terribile errore di valutazione rispetto all’identità dei reali macchinisti del treno: noi possiamo orientare la freccia del suo moto ma sono loro i soli a stabilirne l’intensità.

Pavese tenta di captare il senso della vita tra le righe, scrivendo se stesso e provando a comprendere i maestri che l’hanno preceduto: ha prodotto romanzi, racconti, poesie, sceneggiature, saggi, diari, ha tradotto autori come Joyce e Dickens ed è stato un importante critico letterario.
Ecco che inizia a giungere a sentite conclusioni mentre è confinato a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, per una condanna ingiusta ricevuta dal tribunale fascista. È in questo stato di solitudine e desolazione che scrive un diario fatto di pensieri e ricordi, esattamente come Leopardi aveva fatto con il suo Zibaldone.
Il 23 novembre 1937 Pavese scriveva che la bellezza di vivere risiede nella possibilità di cominciare, sempre e ad ogni istante.
Ogni attimo è un palpabile candidato a questo scopo ed infatti quando lo cogliamo non riusciamo più a dimenticarlo. Mi piace visualizzare l’attimo tramite il valore assoluto, simbolo proprio del linguaggio matematico. Quando poniamo le due lineette verticali su tutta la funzione creiamo automaticamente due casi antitetici ma complementari: y = f(x) se f(x) è maggiore o uguale a 0 oppure y = - f(x) se f(x) è minore di 0. Graficamente, la presenza del valore assoluto su tutta la funzione indica che si è tenuti a simmetrizzarla rispetto all’asse delle y. Ciò implica un disegno perfettamente armonico e completo. Questo per intendere cosa? Che gli attimi li ricordiamo non semplicemente per la loro negatività o positività, bensì per la pienezza che rende il loro ricordo vivo, indipendentemente dall’avvenimento.
Quando manca questo sentimento infatti scrive l’autore, per la prigione, la malattia, l’abitudine o la stupidità, si vorrebbe morire. I giorni sono pieni di attimi vuoti che cadono in un oblio spaventoso e non resta che chiudere gli occhi, come Pavese ha fatto il 27 agosto 1950 mentre ingeriva quelle dieci bustine di sonnifero.
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
In questa frase c’è la delusione di un uomo che a furia di dare una traduzione dell’esistenza quanto più aderente alla realtà, è finito per non riconoscere più se stesso all’interno di essa. Nel suo diario scrive «Ho cercato me stesso» e forse, proprio in quell’ultimo attimo l’ha trovato, finalmente. Forse, proprio in quell’ultimo attimo ha imparato il mestiere della vita.
Articolo a cura di: Emanuela Braghieri