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Nei meandri della sessualità antica: la prostituzione a Roma

Aggiornamento: 24 giu 2021

Con la diffusione della pornografia nel secolo scorso, siamo portati a pensare che oggi viviamo il sesso, come mai, mentre non ci accorgiamo che la nostra società, in merito a quest’argomento, ha ancora molti tabù e rossori, tanto che, se guardiamo ai nostri antenati, ci rendiamo conto che, forse, si facevano molti meno problemi a trattare temi simili.


Foto da http://bikeclassical.blogspot.com/2013/07/villa-romana-del-casale-in-armerina.html

Siamo a Roma, la nostra diretta antenata, e se ci trovassimo in qualche suo incrocio, che a Roma era chiamato quadrivio, o trivio, sicuramente faremmo caso alla presenza dei cosiddetti lupanaria, luoghi dove normalmente si esercitava la prostituzione. Dobbiamo pensare alla società romana come propensa al dibattito sulla sessualità, alla dimensione sessuale, perché inevitabilmente è uno di quegli aspetti della vita umana che va indagato.


La prostituzione poteva essere sia maschile, che femminile (seppur quest’ultima vantasse un maggior numero di “partecipanti”), e in sostanza, pratica ancora più diffusa nell’età del Tardo Impero, ovunque si andasse, si poteva trovare un luogo in cui soddisfare il proprio piacere; pensiamo a quelli che venivano chiamati bustuariae, (bustum propriamente significa tomba), che erano luoghi di prostituzione situati nei pressi dei cimiteri, perché anche in questo luogo, se fosse sopraggiunto l’istinto, si potesse soddisfare.


Ricordiamo i gruppi di donne, denominate “passeggiatrici”, che vagano per le vie, in cerca di clienti. Ma come si poteva riconoscere una prostituta?

In primo luogo, esse vestivano abiti alquanto attillati, che mostrassero il corpo nudo, e non vestivano colori solitamente utilizzati dalle cittadine romane; in alcuni casi potevano avere i capelli tinti di colori inusuali a quel tempo, come per esempio il blu e chiaramente esse erano iscritte al registro degli edìli, ovvero coloro che si occupavano della gestione degli affari pubblici, tra i quali il divertimento del popolo romano.


Inoltre, le prostitute non erano tutte allo stesso livello, difatti figurano le cosiddette “cortigiane”, ovvero prostitute di alto rango, che chiaramente frequentavano persone di alto rango.


Ma ciò, non deve indurci a pensare che questa situazione fosse desiderabile, infatti, in generale le prostitute versavano in condizioni pessime e le loro prestazioni avevano un prezzo irrisorio che consentiva loro di condurre una vita dignitosa ma non agiata. Inoltre, non godevano di buona fama in città ed erano spesso bersaglio di accuse, anche se spesso coloro che si scagliavano contro i loro costumi erano gli stessi che usufruivano delle loro prestazioni sessuali. La prostituzione poteva anche essere il risultato di una violenza: pensiamo alle donne ridotte in schiavitù o alle debitrici di un lenone, costrette a vivere una vita nell’esercizio della prostituzione per riscattare il loro debito.

Addirittura, era concesso ai padri, spesso proprietari di taverne, di poter fare prostituire le proprie figlie, con la consapevolezza di condannarle ad una condizione sociale dalla quale non si sarebbero rialzate e a uno scherno ed un insulto indicibile.

La cultura romana ha sempre visto i “bollori” della gioventù, come desideri che era meglio soddisfare nella spensieratezza adolescenziale e non nell’austerità della maturità. Il poeta-filosofo Lucrezio insegna come l’amplesso debba rimanere privo d’amore, che sia, certamente, da soddisfare, ma senza che il legame prosegua, dopo che si è sciolto quello fisico. Allora, in una dimensione in cui il sesso è sdoganato, la prostituzione è sdoganata, ed inevitabilmente sfruttata, lasciamo che un altro poeta, Catullo, più riflessivo, lirico e che intendeva l’amore in modo differente, ci accompagni alla fine di questo viaggio: quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior. (perché io lo faccia, certamente ti chiederai. Non lo so, ma sento che accade e me ne cruccio)


Odi et amo.



Le case di prostituzione solitamente erano rette da una lena, ovvero una padrona, oppure da un lenone, una personalità esuberante e sciatta che spesso il comico Tito Maccio Plauto rappresenta nelle sue forme più deplorevoli.

Esse avevano un ingresso, che poi si suddivideva in cubicoli, ovvero i luoghi in cui avevano luogo gli amplessi, e che spesso erano ornati con mosaici che rappresentavano la tipologia della prestazione che si poteva richiedere.


Articolo a cura di: Marco Mariani



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