Lobotomia: il terrore della mente
Sappiamo benissimo come, a cavallo tra XIX e XX secolo, la ricerca medica e sperimentale sull’area cerebrale abbia avuto un’espansione senza eguali. Basta che si ricordino i nomi di Sigmund Freud, Jean-Marti Charcot, Carl Gustav Jung e altri, che sono passati alla storia per essere all’avanguardia nello studio e nella cura della mente, al fine di rintracciare e spiegare, con la psicoanalisi, le origini di disturbi mentali e le varie vie per poterli curare.

Un altro fenomeno ebbe larga parte all’ingresso nel mondo dell’organo cerebrale: la psicochirurgia. Il dibattito sulla cura dei disagi mentali, tramite il ricorso alla chirurgia, ha avuto un posto importante in questo periodo, ma oggi vorrei porre l’attenzione su una particolare pratica, sviluppatasi in Europa nei primi del Novecento, per poi trasferirsi negli Stati Uniti, e avere qui la maggioranza degli aderenti: parliamo della lobotomia.
In origine Leucotomia (successivamente Lobotomia), è una pratica chirurgica comparsa nel 1890, quando il dottor Sarles praticò alcune lobotomie parziali su pazienti con problemi psichici, applicando dei fori nel cranio con un trapano ed estraendo i lobi frontali. Questo serviva a distruggere le connessioni della corteccia prefrontale, al fine di mutare i comportamenti e curare le degenerazioni dei malati psichiatrici. La conseguenza però fu sempre drastica: dei sei pazienti operati da Sarles, uno morì durante l’operazione, un secondo fu ritrovato morto in un fiume a distanza di pochi giorni, i restanti presentavano mutamenti del comportamento e alterazione della percezione, tali da renderli non autosufficienti.
Il primo a effettuare una lobotomia controllata è il dottor Egas Moniz, nel 1936. In questo caso il metodo è diverso rispetto a quello di Sarles: Moniz, con l’uso di un trapano, praticava più fori nel cranio in diversi punti, estraendo la sostanza bianca generata dai lobi, tramite iniezione di alcol al loro interno. Questa “evoluzione” della lobotomia, gli permise di accedere al Nobel per la Medicina nell’anno 1949. Citiamo anche un medico nostro connazionale, il dottor Adamo Mario Fiamberti, che praticò la lobotomia transorbitale. Questa procedura consisteva nel raggiungere i lobi frontali tramite i dotti lacrimali, con l’utilizzo di uno strumento cuneiforme denominato Orbitoclasto (della lunghezza di 25cm e larghezza di 5mm). Una volta superato il cranio, si scuoteva fortemente l’orbitoclasto, così da danneggiare il lobo frontale. Questo sistema fu largamente utilizzato negli States dai dottori Walter Freeman e James W. Watts, tanto da divenire parte della cultura generale e da cambiare il nome della leucotomia in lobotomia. La cosa più spaventosa è che la lobotomia transorbitale era considerata una pratica ambulatoriale, che non necessitava obbligatoriamente della sala operatoria e che richiedeva un lasso di tempo molto breve.
Con l’avvento della clorpromazina, l’uso dalla lobotomia venne decadendo, essendo considerata una pratica barbara e venne subito abolita in Paesi come Giappone e Germania.
Nel 1977, il Congresso degli Stati Uniti fondò la Commissione Nazionale per la Protezione dei Soggetti Umani della Ricerca Biomedica e Comportamentale, che doveva occuparsi dello studio e della ricerca sulla pratica della lobotomia come metodo di controllo sul singolo e sul fatto che recava effetti assolutamente indesiderati e dannosi per la salute psicofisica del paziente che vi si era sottoposto.
Per concludere, riporto in seguito il caso clinico di Rosemary Kennedy, sorella di John F. Kennedy: essendo disabile dall’infanzia, all’età di 23 anni fu sottoposta alla lobotomia da parte del dottor James W. Watts, poiché il padre si era accorto dei suoi repentini e bruschi sbalzi d’umore e della sua condotta sessuale molto esplicita. L’operazione fece scomparire questo disagio, ma in compenso rese Rosemary una persona assolutamente diversa: la sua condizione mentale era equiparabile a quella infantile, divenne incontinente, passava delle ore a fissare il vuoto, aveva forti difficoltà a camminare, perse l’uso del braccio e riusciva a esprimersi solamente con parole senza senso. Finì la sua vita in questa condizione, relegata su una sedia a rotelle.
Articolo a cura di: Marco Mariani