Lo sconosciuto genocidio armeno
Ci sono episodi del passato che si smarriscono nel prosieguo arrogante del tempo. Nulla di peggiore può accadere alla storia che essere dimenticata, o peggio celata. È quanto accaduto per il genocidio armeno, condotto dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causò più di un milione e mezzo di vittime.

Il grande crimine (così viene ricordato dalla comunità armena) affonda le proprie radici nel periodo antecedente alla Grande Guerra, quando il governo dei Giovani Turchi, affermato da poco, sterminò circa 30.000 armeni nella regione della Cilicia. Questi erano accusati d’alleanza con i Russi, di cui l’impero ottomano era nemico. Il progetto del genocidio venne permesso ufficialmente nel 1915, in seguito all’approvazione della legge Tehcir, la quale autorizzava la deportazione di tutta la popolazione armena dall’Impero ottomano. L’organizzazione speciale fondata dal comitato di Unione già nel 1913, accanto ad alcuni ufficiali dell’esercito tedesco, secondo le alleanze tra Germania e Impero ottomano, si occuparono delle carovane.
Non tutti avevano però la fortuna di marciare. Gli uomini e i bambini maschi venivano trucidati prima della partenza. Così Antonia Arslan, scrittrice di origine armena, narra quel momento:
“La notte è passata, e degli uomini non c’è traccia. Nessuna famiglia li rivedrà più. Molti anni dopo, finita la passione degli armeni e la guerra mondiale, nella Turchia disfatta dalla sconfitta sarà scoperto il loro destino: fatti uscire di notte dal Magazzino del Sale, dove qualche donna si era avventurata a portare del pane, ed era tornata tranquillizzata, vennero uccisi l’uno sull’altro nella Valle delle Cascate, dove i cadaveri insepolti rimasero a fissare il cielo con le orbite vuote, nudi e privati di tutto, anche della maestà della morte” (A. Arslan, La masseria delle allodole, Rizzoli, Milano, 2004, p. 119).
Per coloro che non vennero uccisi, prevalentemente donne e vecchi, iniziava la marcia della morte che ricorda, in un atroce parallelo storico, ciò che accadrà trent’anni dopo nelle marcie naziste dopo l’offensiva sovietica. Molti armeni morirono di fame, di malattia o di sfinimento. I restanti vennero trucidati conclusa la marcia.
Cosa resta di tutto questo? Soltanto qualche fotografia, scattata da Armin T. Wegner, paramedico militare tedesco, rappresentante l’unica materiale prova di questo genocidio. Ogni altra “sopravvivenza” venne evitata o distrutta. Il governo turco ricusa ancora oggi di riconoscere questa strage sostenendo che le morti durante i trasferimenti armeni non possono essere considerate un genocidio poiché non erano operato del governo. Si è sostenuto inoltre, in maniera divergente, che gli armeni fossero periti di anemia o vittime delle stesse bande armene. È qui che risiede una delle maggiori cause di tensione tra la Turchia e l’Europa. Le posizioni delle comunità internazionali non hanno raggiunto l’unanimità nel riconoscimento del genocidio e il negazionismo è ancora molto persistente. In Turchia, vale la pensa ricordarlo, è reato di vilipendio all’identità nazionale parlare di genocidio e le minacce degli ultranazionalisti a coloro che difendono la posizione europea sono frequenti. Talvolta, capita anche che qualcuno venga ucciso, come è accaduto a Hrant Dink, giornalista armeno assassinato a Istanbul con tre colpi di pistola.
L’Italia, fortunatamente, sulla scia del Parlamento europeo ha votato una risoluzione di riconoscimento del genocidio armeno, invitando la Turchia a fare i conti con il proprio passato. In Francia è addirittura considerato reato negare lo sterminio.
Come è facile quindi dimenticare (o nascondere sotto il tappeto) il passato. Le narrazioni storiche respirano spesso di una ipocrisia straordinaria nella selezione implacabile di cosa è doveroso ricordare e cosa no. Certo, non si tratta di una corsa a ciò che è più o meno importante; si tratta solo di conoscere.
Come affermerebbe Walter Benjamin: noi siamo figli e figlie del passato, la voce dei senza nome risuona dentro di noi, l’eco delle ingiustizie passate deve bruciare nel presente.
Articolo a cura di: Paolo Fisichella