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Livio. L’opera e il rapporto con il regime di Augusto

Il primo grande storiografo romano a riprendere l’opera del greco Polibio, seppur in forma meno obiettiva, fu Tito Livio. Nato a Padova nel 59 a.C. e trasferitosi presto a Roma, entrò in contatto con Augusto. Dedicò gran parte della sua vita alla realizzazione dell’opera storica Ab urbe condita libri, che ripercorre la storia di Roma fino alla sua epoca in 142 libri. Morì durante uno dei suoi soggiorni a Padova nel 17 d.C. Livio recupera l’idea di decadenza morale di Polibio, sostenendo che l’Impero abbia imboccato, con la sua eccessiva estensione, la via del declino.



Lo storiografo ritiene che Roma, reduce dalla guerra annibalica, abbia fallito nello svolgere il compito assegnatole dalla storia. Questo disagio suscitato dagli eventi più recenti, porta Livio a ripercorrere il passato glorioso di Roma, identificando nelle guerre annibaliche, come già Polibio e Catone, il punto di massima integrità e potenza dell’Urbe. Frequente è l'elemento paideutico, nella speranza che il processo che ha portato una piccola città del Lazio a diventare padrona del mondo, possa essere d’insegnamento ai giovani contemporanei all’autore. Lo scopo di Livio non è quello di raccontare in maniera obiettiva e precisa gli eventi passati, bensì educare la nuova gioventù romana sul modello dei grandi uomini del passato, che costituiscono esempi da imitare o evitare. Ad ogni modo questo fine non contrasta con il regime augusteo, che Livio si trova a sperimentare.



L'autore sembra essere dapprima restio al nuovo ordinamento, tantoché Tacito ci informa che Augusto lo avrebbe soprannominato “pompeiano” (Annales, 4, 34), per via della sua nostalgia repubblicana. Ciononostante lo storiografo padovano sembra essersi col tempo piegato ad Augusto, accorgendosi che l’Impero era diventato una necessità. Nell’opera di Livio la battaglia di Azio assume quasi un ruolo di spartiacque tra l’orrore delle guerre civili e un nuovo ordine ripristinato, sia per le concessioni che il princeps conferiva alle vecchie istituzioni repubblicane, sia per disillusione personale. L’impero di Roma, seppur portatore della decadenza morale, viene celebrato come frutto della cooperazione tra fortuna e virtus. La grandezza dei romani risiede nell’aver mostrato più tardi di tutti gli altri popoli comparsi anteriormente i sintomi di decadenza di fronte ad un così ampio potere. I Romani si stagliano come esempio di integrità e grandezza; esempio di un popolo che ha respinto finché gli è stato possibile il morbo che ha sistematicamente logorato tutte le grandi potenze del passato. La speranza che Livio nutre con la fine delle guerre civili e nell’instaurarsi della pax augustea, è quella di un grande amante della libertas repubblicana, dalla quale non riesce a separarsi in alcun modo.


Articolo a cura di: Giacomo Sabbatini



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