Leopardi magister vitae – lo Zibaldone e la felicità
Chi mi conosce sa bene che non c'è passione più grande in me del pensiero filosofico di questo controverso autore, e chi non mi conosce non ci impiega molto a capirlo.

Sono anni, ormai, che ho assunto su di me la missione di riuscire a mostrare Leopardi sotto un'altra luce che non sia quella del gobbo pessimista e depresso. Per me è stato amore a prima vista, o meglio, a prima lettura. Mai il pensiero di un autore mi si è mostrato così limpido e chiaro come il suo, e io, al contrario del parere di molti, vi ho ritrovato un profondo e coraggioso spirito di accettazione della vita nella sua essenza più pura, con tutti i suoi contro. Per questo tenterò, in queste poche righe, di rendere anche a voi chiaro e manifesto l’impulso vitale che ritrovo nelle sue parole, e lo farò con uno dei passi dello Zibaldone che più amo, il 4517:
“La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno.”
Che poi posso anche comprenderlo che agli occhi dei più Leopardi possa, in un primo momento, sembrare un pessimista, ma quello che non ho mai capito è perché dover ritenere pessimista un pensiero così concreto e aderente alla realtà.
La verità, forse, è che abbiamo paura di vedere le cose per quello che sono, di accettarle nella loro essenza.
Eppure Leopardi ha ragione: in funzione di quello che lui chiama amor proprio – concetto alla base della sua Teoria del piacere, elaborata negli anni 1818-19 e da cui sono nati sublimi componimenti poetici come L’Infinito – aspiriamo tutti, per noi stessi, alla felicità, a un bene infinito, perché la nostra capacità immaginativa non ha limiti. Il mondo reale in cui viviamo, però, è per sua natura limitato, quindi incapace di appagare i nostri infiniti desideri. Proprio per questo lui dice che "il vero è brutto", e non è difficile da capire. La vita è un continuo di imprevisti, problemi, inconvenienti, preoccupazioni, però questa è, e la soluzione non è di certo fuggire. Leopardi, infatti, era contro il suicidio, che arreca danno e sofferenza solo a chi resta. È curioso notare come tutte le sue teorie siano esposte con rigore e razionalità, mentre di fronte al suicidio – come possiamo leggere nell’operetta Dialogo di Plotino e Porfirio – si abbandona ai sentimentalismi, a ragioni che si basano sugli affetti. E se il suicidio non è la giusta via da intraprendere, resta soltanto una sola soluzione: avere il coraggio di guardare la bruttezza del vero, di accettarla e di "riconoscere" - come direbbe Calvino - "chi è che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio". Ed è proprio questo il messaggio che ci manda nelle ultime strofe de La ginestra, che non a caso è posta a testamento della sua produzione poetica. Leopardi qui invita gli uomini ad unirsi in una “social catena” contro il loro unico e vero nemico, la Natura, totalmente disinteressata verso le sorti umane e tesa solo alla perpetuazione della sua esistenza. Gli uomini si fanno la guerra, si incolpano reciprocamente dei propri mali quando dovrebbero, al contrario, essere solidali perché vittime inesorabili di un destino comune dal quale non possono fuggire. E in questa solidarietà, in questa “social catena” trovare un motivo valido per vivere.
Articolo a cura di: Sofia Serranti