Le radici della “buona morte”: l’eutanasia nell’antichità
Come sicuramente la maggioranza di voi avrà notato, da qualche mese le maggiori città italiane sono tappezzate da sit-in, manifestazioni e stand che richiedono un referendum sul tema dell’eutanasia, che ha acquisito una certa presenza anche (e forse soprattutto) online, grazie a una massiccia campagna di promozione anche da parte dei maggiori influencer del Paese.
La parola “Eutanasia” deriva da due parole greche: dal prefisso eu-, che significa “buono”, e dalla parola thanatos, “morte”. Per “buona morte” si intende dunque una morte sopraggiunta senza sofferenze, anzi spesso in condizioni di piacere o come conclusione di atti straordinariamente eroici, ed essa è giunta quindi a intendersi come un decesso supportato dall’aiuto di medici appositi, come accadde per esempio a Seneca. Ma questa pratica non nasce certo in ambiente contemporaneo: fin dall’epoca classica esistevano professionisti di questo procedimento, incaricati di intervenire in quei casi dove un malato desiderasse far cessare le proprie sofferenze.

Possiamo vedere che, proprio nel caso di Seneca, che era stato condannato a morte dall’imperatore Nerone e che, come Socrate (ironia della sorte?), decise di morire bevendo la cicuta, venne assistito da un medico che tuttavia aveva solo lo scopo di vigilare sulle condizioni del filosofo in modo da garantirgli un trapasso dignitoso (come la morale stoica richiede), non quello di decidere sul modo del paziente di arrivarvi.
In particolare, nella filosofia di Epicuro, la quale teneva in massima considerazione la qualità della vita e la necessità per ciascun individuo di vivere al meglio delle proprie possibilità, il tema del disporre liberamente della propria esistenza acquisisce ancora più importanza: “è una sventura vivere nella necessità ma vivere nella necessità non è affatto necessario” diceva il filosofo di Samo. È di dubbia interpretazione un passo del giuramento di Ippocrate, il quale dice “non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio”. Non è del tutto chiaro se il celebre medico greco si riferisse a un farmaco richiesto direttamente da un paziente oppure da una terza persona (senza considerare poi che nell’antichità il giuramento non era vincolante per tutti i medici, essendo gli Ippocratici solamente appartenenti a una specifica scuola di medicina), ma analizzando il testo greco originale è possibile supporre che in realtà ci si riferisse proprio a quest’ultimo caso, intendendo che la persona che richiede il farmaco sia diversa dalla persona a cui esso viene somministrato.
Possiamo dunque dedurre che fin da tempi antichissimi, anche quando la medicina non era certo sviluppata come lo è adesso, fosse comunque profondamente sentita l’esigenza, quando il dolore di una ferita o le pene di una malattia erano insopportabili, di restituire al morente la sua dignità conferendogli un decesso rispettoso e limitando il dolore anche ai suoi cari.
“Morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male. La ragione stessa ci esorta a morire in un modo, se possibile, che ci piaccia.” - Lucio Anneo Seneca
Articolo a cura di: Elisa Matta