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La vita, un condominio a tre piani con l’ascensore guasto

“I tre piani esistono nello spazio tra noi e l'altro(...). Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell'atrio, in cerca di un pulsante della luce”.



È un passo contenuto nel libro di Eshkol NevoTre piani” divenuto film grazie alla direzione di Nanni Moretti.

Nazionalità differenti ma stessa natura: scrittore e regista hanno ambientato le loro creazioni nei Paesi di origine, Tel Aviv il primo, Roma il secondo. Trama e sceneggiatura creano un intreccio tenuto saldo dalla consapevolezza per cui l’uomo è tale indipendentemente da dove lo si collochi sulla cartina geografica.

Il protagonista è un condominio, o meglio, l’ascensore che non c’è e che impone ai condomini di attraversare le varie porte per entrare nella propria. Spesso la porta del vicino è chiusa: gli abitanti dell’appartamento si preoccupano di chiuderla prima che uno sguardo troppo curioso possa intravedere il casino all’interno.


Lo stabile, che si confonde nella via per l’aspetto semplice e l’apparente quiete, ha tre piani a cui corrispondono tre spaccati di vita che pulsano a ritmo della quotidianità.


Al primo piano abita un padre la cui paura che alla figlia sia accaduto qualcosa di terribile si trasforma in un’ossessione che lo porta a lasciarsi governare dall’irrazionalità. Quando la sete di verità è eccessiva si finisce per morire. Forse.

Al secondo piano abita una donna divenuta moglie di un uomo poco presente e mamma di una bambina. Madre è colei che ama incondizionatamente la creatura che ha generato. Ciò avviene perché è la natura la prima a desiderarlo, tuttavia la realtà, vuole rispettare il postulato per cui non si può amare realmente una persona se prima non si ama se stessi: a furia di non riconoscersi, però, si finisce a non riconoscere la strada che porta a casa, come è avvenuto, forse, a Monica.


Al terzo piano abita un figlio che riversa nell’alcool e nella ribellione la frustrazione di avere al posto di due genitori, due giudici di professione. Il padre, la cui irremovibilità è tanto stratificata da reprimere il movimento cardiaco, comprende il figlio solo a suon di lettura degli articoli del codice penale da lui violati. La madre, nonostante si sforzi di cercare buonafede nelle azioni del figlio, sente di non avere prove sufficienti per prendere una posizione. Se in un’aula di tribunale questo potrebbe essere sintomo di ricerca di giustizia, nella vita la chiave passepartout non può e non deve essere la soluzione. Forse, ad oggi, ciò non le è ancora chiaro.



“Forse” perché nonostante il film voglia raccontare queste storie in una fascia temporale che ricopre dieci anni, tanti sono i punti interrogativi aperti alle diverse sensibilità degli spettatori. Al di là dell’amaro in bocca che si prova ogni qual volta l’ipotesi supera la certezza, ciò che il finale regala è l’immagine di questi condomini davanti al cancello. Ogni cicatrice si è mescolata all’altra perché ognuno ha aperto la porta al vicino rendendolo personaggio della propria storia.


Ho guardato il film accanto alla persona per cui il caso ha voluto che il suo appartamento coincidesse con il mio ma ogni giorno l’una sceglie di aprire la porta della camera, verde o rossa che sia, all’altra. Anche se c’è buio, anche se il letto è sfatto e abbiamo dimenticato di togliere la polvere dalla mensola. Non so quando il nostro percorso ci porterà a trasferirci su due piani differenti ma mi auguro che, quando saremo chiamate a stabilire se prendere le scale o l’ascensore per raggiungere la porta di casa, sceglieremo le prime, con il desiderio di fare una sosta per una partita a carte tra una fetta di tiramisù ed una di vita.


Articolo a cura di: Emanuela Braghieri



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