La ricchezza nel passato
Ormai all’altezza del ventunesimo secolo abbiamo ben recepito il concetto di “economia”, come un complesso sistema che governa l’aspetto finanziario delle nostre società. In questi ultimi anni, in più, ci siamo abituati all’idea di una economia in continuo movimento, che vede aprirsi continuamente nuovi mercati e investimenti. Questa cosa sicuramente avveniva molto più lentamente nel passato, seppur sempre costante nell’uomo è rimasto l’approccio capitalistico alle forme economiche.

Nel mondo odierno c’è un aspetto ravvisabile anche nell’economia di tremila anni fa, per quanto riguarda la ricchezza. Ma come facevano gli antichi a quantificare la ricchezza senza estratti conto, macchine e viaggi di lusso? Se andiamo a sbirciare nell’universo spartano, dove peraltro la ricchezza è un concetto poco diffuso, data la scarsa importanza che le veniva data (erano gli unici ad avere una moneta di ferro, il cui valore è praticamente nullo), a Sparta la ricchezza si basava sul concetto di sussistenza. Uno spartano doveva essere in grado di mantenere se stesso, la propria famiglia e la propria terra, inoltre, mantenere i “sissizi”, ovvero dei pasti comuni che gli spartani erano tenuti ad alimentare comunemente.
Spostandoci, invece, nell’Atene del V secolo, noteremo che è una città-stato in completa espansione economica. Come facciamo a dirlo? Abbiamo una sorta di PIL dell’avanti Cristo? Per dirlo basta guardare la capacità ateniese di allestire le navi e un esercito; i domini della polis su regioni nelle quali figurano ricchi giacimenti minerari; la presenza della Lega Delio-Attica dalla quale Atene esige un tributo in moneta, oppure in navi o uomini. Quindi la ricchezza è quantificabile dalla capacità di mantenere un esercito e l’esercito stesso è una fonte di ricchezza in quanto, per gli stati membri, può essere usato per pagare il tributo ad Atene.
Ma ricchezza significa anche aspetto. Come mostravano la ricchezza nell’antichità? Verrebbe subito da dire le opere architettoniche, la monumentalizzazione della città. Ma dobbiamo anche menzionare un luogo che possiamo definire la “borsa” dell’antichità: i santuari. Il santuario è un luogo di culto, indubbiamente, ma anche di confronto e “scontro”. Al santuario si portano doni o sacrifici per l’oracolo, più il dono è ricco, più la predizione sarà favorevole. Così doni maggiori e più grandi mostrano anche agli altri la ricchezza. E questo è l’elemento di paragone con l’oggi, dato che spesso i social network divengono il luogo di ostentazione della ricchezza, questa non è che una pratica insita nell’uomo sin dall’antichità.
Oltrepassando l’Adriatico e arrivando a Roma, sottolineiamo come la moneta abbia comunque un ruolo da protagonista nel mondo antico. Spesso a Roma, per valutare la ricchezza di una persona potente, si utilizzava la stima dei suoi beni in sesterzi (la moneta romana): così sappiamo, dalle fonti storiche, che Ottaviano Augusto alla sua morte era in possesso di più di un miliardo di sesterzi in terreni, immobili e ricchezze varie.
Ciò che sicuramente ci differenzia è l’approccio alla ricchezza degli antichi. Essi, consci del fatto che la ricchezza è un effetto dell’uomo e non una causa, l’etichettavano filosoficamente ed eticamente, non con spregio, ma con un livello inferiore nelle dinamiche umane, ciò è ravvisabile nel Petronio del Satyricon, quando deride il liberto Trimalcione per la sua eccessiva ostentazione di ricchezza.
Nel nostro mondo, invece, la ricchezza è ricercata in ogni modo, come limite ultimo del successo di una persona (cfr i vari “guru” della finanza e del trading sui social network), mentre perdiamo la percezione erosiva della ricerca della ricchezza. Ciò da cui ripartire, anche in questo caso e come sempre, è la storia, che questa volta vuole consegnarci una lezione di etica economica.
Articolo a cura di: Marco Mariani