La forma non è tutto: una lezione dalla Costituzione inglese
Quando l’Italia fu liberata nel ‘45, si pensò che ci fosse bisogno di una nuova Carta fondamentale, perché quella precedente, lo Statuto Albertino, aveva deluso più di una volta. Quest’ultimo era una costituzione flessibile, cioè modificabile da qualsiasi legge del Parlamento e per questo era stato una debole protezione contro il regime fascista. Dunque, la Costituzione del ’48 è una costituzione responsiva, un atto scritto volto a mutare la forma di Stato e a rifondarlo dopo la drammatica esperienza della dittatura. A garanzia del suo ruolo primario nell’ordinamento, è caratterizzata da una certa rigidità: per la sua modifica non basta una qualsiasi legge del Parlamento, ma bisogna seguire un iter specifico e complesso, che richiede maggioranze particolarmente consistenti. La nostra, però, non è l’unico tipo di Costituzione esistente al mondo: unitestuali, rigide o flessibili, la loro efficienza si misura guardando alla loro capacità di imporsi nell’ordinamento.

Una delle Costituzioni che più di tutte affascina i giuristi è quella inglese. La Gran Bretagna è un Paese di Common law, ovvero un ordinamento basato più sui precedenti giurisprudenziali che su atti normativi. Non deve allora stupire che la sua Costituzione non sia un atto scritto: essa è data anche da una serie di atti normativi, come la Magna Charta del 1215, ma soprattutto da una stratificazione di principi (constitutional conventions). In particolare, due di essi sono considerati i veri pilastri dell’ordinamento: il principio di sovranità parlamentare, per cui il Parlamento è l’unico titolare del diritto di fare o disfare leggi e nessun soggetto è legittimato a disapplicare un suo atto; e il rule of law, il principio per cui la legge vale per tutti e nessun potere può prevalere sugli altri. Di recente, tuttavia, tali capisaldi sono andati incontro a un processo di erosione, causato sia dal passare del tempo e dei mutamenti sociali, che periodicamente portano a rilanciare l’idea di una costituzione scritta, sia dal dialogo con l’esterno, in particolare dal diritto europeo.
Mentre la Brexit è ancora un tema caldo, non possiamo non rilevare come l’entrata del Regno Unito nell’Unione Europea, avvenuta nel 1972 con lo European Community Act (ECA), abbia profondamente cambiato l’ordinamento inglese. Davanti a un’entità sovranazionale che reclamava la supremazia delle sue norme su quelle nazionali, le Corti britanniche hanno dovuto trovare un modo per risolvere l’apparente contrasto con il principio di sovranità parlamentare. Una svolta c’è stata con la sentenza Thoburn, con la quale per la prima volta si è affermata la natura costituzionale dell’ECA. Infatti, siccome nell’ordinamento inglese le leggi costituzionali si distinguono per disciplinare i rapporti gerarchici tra cittadini e Stato oppure per aumentare o diminuire i diritti dei cittadini e poiché l’ECA amplia la sfera dei diritti degli inglesi, esso ha natura costituzionale. Di conseguenza, qualsiasi legge successiva del Parlamento non bastava a travolgerlo: la sua abrogazione doveva essere espressa. Per questo, quando nel 2015 Theresa May tentò di uscire dall’Unione recedendo dal trattato senza passare per il Parlamento, la Suprema Corte inglese alzò il cartellino rosso della violazione del principio di sovranità parlamentare, affermando che dall’Europa si poteva uscire solo se era il Parlamento inglese ad abrogare l’ECA. E, di nuovo, quando Boris Johnson implementò la sospensione del Parlamento nel 2019 per facilitare l’uscita dell’Unione, la Supreme Court dichiarò l’invalidità dell’atto per violazione della sovranità parlamentare. Al Primo ministro che aveva sostenuto che non toccava alla Corte sindacare sulla validità di un atto politico, i giudici risposero che esso mirava chiaramente a impedire al Parlamento di svolgere la sua funzione di controllo sull’esecutivo, quindi era illegittimo e sproporzionato: laddove il Governo esca dai limiti della Costituzione, non sta più facendo politica e i suoi atti sono giustiziabili.
Allora, anche quando non è scritta, anche nel caso in cui manchi una Corte costituzionale ad hoc, se la Costituzione è veramente all’apice della gerarchia delle fonti, lo si vede da come il sistema reagisce a un contrasto tra le sue norme e altri atti. In Italia e in altri ordinamenti, una fonte scritta è sinonimo di certezza, ma la forma da sola non basta a infondere forza al contenuto: lo Statuto Albertino era una costituzione scritta e flessibile, ma è stata piegata dalla dittatura fascista; la Costituzione inglese è fatta di principi non scritti, eppure la sua forza è rimasta illesa per tutti questi anni. Questo prova che la Costituzione è qualcosa di più di un documento: i valori che riconosce sono lo scudo dell’individuo contro l’abuso di potere. La Carta costituzionale non è il riflesso di una maggioranza parlamentare saltuaria, ma il vero DNA dello Stato.
Articolo a cura di: Laura Tondolo