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La “Fast fashion” e gli impatti sul nostro pianeta

La moda veloce (Fast fashion) è un modello di business che crea un senso di urgenza per incoraggiare l'acquisto impulsivo di capi d’abbigliamento a prezzi bassi, alimentando così la produzione di altri indumenti. Ma cosa significa tutto questo per il nostro pianeta?



Il contributo umano al cambiamento climatico sembra spesso astratto, e l'aumento del livello del mare, l'aumento delle temperature e delle emissioni di Co2, sembrano tutti concetti a noi lontani. Tuttavia, ogni volta che ci vestiamo la mattina, gli impatti umani del cambiamento climatico toccano la superficie della nostra pelle, perché l'industria tessile è diventata uno dei peggiori inquinatori e causa di questo fenomeno. Basti pensare al jeans denim, uno dei tessuti preferiti in tutto il mondo; farne un solo paio, richiede fino a 10.000 litri d'acqua - che è sufficiente per estinguere la sete di un adulto medio per più di 13 anni.

L’industria della moda è peggiore per l'ambiente di quanto lo sia l'aviazione, molto peggiore. Nel 2018, il trasporto aereo - sia per le merci che per i passeggeri - ha rappresentato fino al 2,5% delle emissioni globali di biossido di carbonio (Co2). L'industria di moda, invece, ha causato emissioni quattro volte maggiori.

Secondo recenti ricerche, l'industria tessile è diventata anche una delle principali responsabili dell'inquinamento da microplastiche a causa ai tessuti sintetici, fatti di poliestere o nylon. Queste fibre finiscono nei nostri oceani, danneggiando la vita degli abitanti sottomarini, alterando il loro ciclo alimentare e bloccandone la digestione. Finiscono anche nel nostro cibo e nell'acqua; i ricercatori stimano, infatti, che un singolo consumatore europeo di molluschi ingerisca fino a 11.000 pezzi di microplastica all'anno, ma non è ancora chiaro come questo danneggi il corpo umano.

Ad oggi, i mercati più importanti per la vendita di abbigliamento sono la Cina, gli Stati Uniti e l'UE. Ma con l'aumento dello sviluppo economico e la crescita della popolazione in Africa, India e Sud America, la domanda per uno stile di vita fast fashion dovrebbe crescere.


Ci sono alcuni marchi di strada che hanno risposto alle preoccupazioni ambientali lanciando varie linee di sostenibilità. “H&M” sostiene che i vestiti di alcune sue collezioni (“Conscious”, per esempio) siano realizzati con almeno il 50% di materiali di provenienza sostenibile. Ma parole vaghe e indefinite come "coscienza", "etica" e "sostenibile" hanno portato ad accuse di "greenwashing", nel senso che i marchi trasmettono una falsa impressione di essere ecologicamente corretti pur continuando queste cattive pratiche. Infatti, l’uso della parola 'sustainable' è aumentato del 125%, eppure, allo stesso tempo, questi prodotti rappresentavano solo il 3% di tutti gli articoli disponibili online.



Per ripulire l'industria tessile, le leggi devono essere innanzitutto approvate dai più grandi inquinatori come la Cina e gli Stati Uniti, che hanno rappresentato il più grande mercato della moda del mondo fino al 2019. L'elezione del presidente Joe Biden nel 2020, ha dato un nuovo tono alla politica statunitense, ricongiungendosi all'Accordo di Parigi sul clima che ha segnalato l'impegno a imporre maggiore trasparenza all'interno delle catene di fornitura. Da parte sua, l'UE ha adottato un piano d'azione per l'economia circolare, che stabilisce obiettivi per promuovere il riciclaggio e ridurre i rifiuti delle discariche, ma la concorrenza tra i più grandi marchi di moda è così forte che il miglioramento ambientale sarà lento se continuiamo a comprare materiali inquinanti.

Detto questo, opzioni come l'acquisto di oggetti usati, d'epoca o rotti, sono sempre più scelte. Secondo uno studio del 2020, il boom dell'economia online, emerso durante la pandemia COVID-19, potrebbe portare le vendite di abbigliamento di seconda mano a superare la moda veloce entro il 2030.


Se riuscissimo a raggiungere questo obiettivo, i vestiti che indossiamo potrebbero cessare di essere solo all’ultima moda, ma diventare parte della soluzione al cambiamento climatico.


Articolo a cura di: Marijana Jovanovic



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