La democrazia che tradisce sè stessa
“Una mente non ottiene autentica libertà mutuando conoscenze e ideali di altre persone, bensì formando i propri standard di giudizio e producendo i propri ragionamenti”
Così affermava Rabindranath Tagore nel 1915 in Programma pedagogico. Cosa resta di questo ideale educativo nella democrazia contemporanea?
Diversi teorici, da Dewey a Macpherson, ci raccontano di una democrazia che tradisce se stessa. Questo avviene, come ci ricorda Stefano Petrucciani, docente di filosofia politica alla Sapienza di Roma, quando il vettore della volontà politica non va più dal basso verso l’alto ma dall’altro verso il basso, laddove i cittadini subiscono il giogo delle strategie messe in atto dalle élite politiche per conquistare consenso (Cfr. S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino, 2003).

In tal senso la democrazia assume un volto dinamico, in grado di mutare (e degenerare) in tempi relativamente brevi. Il volto sociale contemporaneo consta di un enorme disinteresse politico che è figlio, come ci ricorda Lipovetsky nel suo ultimo testo Piacere e colpire (2019), dell’avvento di una nuova forma di seduzione: il capitalismo consumistico. Se nel XX secolo gli individui erano ancora in grado di bruciare di passione politica, come ad esempio con le grandi utopie comuniste o con i falsi ideali nazionalisti, gli anni ’60 hanno condotto ad un gioco del consumo per il consumo in cui l’unico imperativo diviene godere. Di conseguenza non ci deve stupire che la nostra società viva ora in un blackout seduttivo della dimensione politica, che pone il serio pericolo di una degenerazione della democrazia rappresentativa.
Sarebbe errato pensare che il rischio sia quello di una caduta della democrazia. Al contrario l’insidia ascosa risiede nella affermazione totale di una democrazia, nella quale gli elettori, incapaci di pensare, si appellino alla volontà indiscussa dei leader politici. In tal senso la democrazia perderebbe la propria voce mutando in una paradossale oligarchia democratica. Il meccanismo democratico parrebbe dall’esterno fondamentalmente come immutato, ma dall’interno si scorgerebbe la sua falsità, laddove le élite politiche richiamano un consenso generico, indotto dalla pancia piuttosto che da un ponderato raziocinio.
E’ chiaro che ragioniamo in modo weberiano per idealtipi. Infatti esistono ancora (e fortunatamente esisteranno sempre, voglio sperare) elettori in grado di partecipare attivamente alla res publica e a condurre scelta ragionate. Ciò non toglie tuttavia che sociologicamente è necessario focalizzarsi non sulle eccezioni, ma sulla maggioranza delle singole scelte degli individui che poste insieme danno vita ad un fenomeno sociale. Rispetto a questo gioca un ruolo cruciale l’utilizzo dei social che paiono, solo apparentemente, un modo di coinvolgimento nella dimensione politica e invece rappresentano, sempre più spesso, soltanto un ulteriore mezzo di propaganda delle élite politiche.
Ad oggi, il numero di democrazie definite “malate” è in aumento. C’è da dire che un tempo il processo democratico era interrotto dalle rivoluzioni o dai colpi di stato. Adesso, invece, il problema delle democrazie è la morte non causata da attacchi esterni ma da ragioni interne che agiscono molto lentamente e perciò sono difficilmente individuabili.
Anni di governi inadeguati e politiche mediocri hanno delegittimato lo Stato e determinato il primato dell’economia sulla politica. La maggior parte dei cittadini si è allontanata dalla res pubblica, convinta del fatto che il proprio voto non conti nulla. Dunque, le sedi di rappresentanza democratica, in primis partiti e parlamento, si sono svilite.
Il problema consiste in una scarsa partecipazione elettorale e nella presenza di una élite percepita come casta privilegiata e corrotta. Per una democrazia diretta è necessario che ci siano elettori preparati. Il livello minimo di conoscenza necessario ad amministrare è ormai alto: se chi vota non è in grado di giudicare la competenza dei candidati o la qualità delle loro idee, l’eletto risulta inadatto a gestire i problemi della collettività. In tutto ciò, il contesto di certo non aiuta: chi è impreparato, fatica a maturare opinioni consapevoli. I cittadini, avendo poca capacità critica, sono più soggetti alla manipolazione dei social media che forniscono una percezione distorta della realtà. L’analfabetismo così definito “funzionale”, assieme alle fake news, vizia il voto.
Tutto ciò che cosa comporta? Comporta anzitutto che, chi vota, ignori o non comprenda i programmi elettorali; non esiga competenza dai candidati; non abbia l’abilità di verificare la veridicità di una notizia; si affida a percezioni più che a dati concreti e, infine, tende al plebiscito. Senza validi governanti, l’autoritarismo attrae consensi crescenti. Dunque, il rischio assolutistico appare evidente e reale.
La democrazia si fonda sulla possibilità di dibattere pubblicamente le questioni di interesse collettivo e di far maturare opinioni. Fino a che esiste una sfera pubblica in cui si possono argomentare le diverse posizioni e i cittadini sono in grado di comprendere i termini minimi delle questioni, una democrazia è viva. Una democrazia, invece, muore quando tra i cittadini serpeggia l’idea che non esista più una ragione per cui la discussione e il confronto abbiano un senso.
In Italia la democrazia è morente in quanto media e politica, da tempo, non entrano nel merito delle questioni e le strategie di raccolta del consenso sono personalistiche e divisive. I partiti e le organizzazioni sociali sono svaniti e al loro posto sono apparsi leader che cercano di mettere in scena, in maniera grottesca, la pantomima dell’uomo forte, dai tempi di Weimar una soluzione sempre buona in tempi di crisi.
In che modo, dunque, è possibile proteggere la democrazia? Anzitutto, ricordiamo l’art. 48 Cost. che riconosce il voto come un diritto e un dovere civico e pertanto espressione di democrazia, sovranità popolare e cittadinanza.
espressione di democrazia, sovranità popolare e cittadinanza.
Bisognerebbe a tal proposito rafforzare questo principio: se un tempo, nella polis greca, la partecipazione era un dovere, oggi, al diritto di voto, corrisponde il dovere di essere , quanto meno, preparati ad esercitarlo, dunque conoscendo pregi e difetti dei candidati, riconoscendo il migliore.
Inoltre, la democrazia deve essere protetta da leader competenti eletti da cittadini consapevoli: in uno stato mal governato non può esserci giustizia.
Infine, sarebbe opportuno ridisegnare le istituzioni democratiche, stabilendole in un contesto in cui le dinamiche più rilevanti siano globali e l’eletto rappresenti lo Stato e non i suoi elettori.
Come salvare le democrazie, quindi, dal loro stesso tradimento? Noi crediamo che il germoglio della loro potenzialità cresca, come afferma Nussbaum in Non per profitto, nella cultura, prima tra tutte la cultura umanistica. John Dewey valutava in Democrazia e educazione un progetto pedagogico, in grado di creare un pensiero critico e democraticamente orientato all’interno di una scuola pragmatica, come ad esempio nella valorizzazione della cooperazione o nell’esortare il bambino ad una posizione attiva, chiedendogli di ragionare e porre domande.
Che sia proprio nell’educazione la salvezza della democrazia? Noi vogliamo sperare che sia proprio così.
Articolo a cura di: Marica Cuppari e Paolo Fisichella