La chiesa, la naja e la tenuta dell’Italia unita
La recente dichiarazione del nostro presidente Sergio Mattarella - “La festa della liberazione è il cemento che tiene insieme l’Italia” - è stata lo spunto di questa mia personalissima riflessione. Fare un’analisi della situazione socio-politica del nostro paese è sicuramente un’impresa ardua che richiede una profonda conoscenza degli eventi storici italiani degli ultimi secoli e delle corrispondenti dinamiche geopolitiche a livello europeo e mondiale.

Tralasciando per motivi di opportunità questi ampi ambiti della storia, troppo vasti ed impegnativi, voglio concentrarmi sulle dinamiche interne al nostro paese, partendo da questa data, il 25 Aprile, che come ha aggiunto il presidente Mattarella: “rappresenta uno spartiacque imprescindibile nella nostra storia nazionale”.
Se su questo secondo concetto mi trovo completamente in sintonia con quanto affermato dal Presidente; nutro invece qualche dubbio sul fatto che la festa della Liberazione sia il cemento che lega tra loro i tanti campanili della variegata società italica. Il dubbio credo sia legittimo e d’altronde, in tempi di social, è sufficiente qualche minuto di “navigazione” per imbattersi contro i tanti scogli che squarciando la carena dell’Italic lo fanno affondare insieme al suo equipaggio: il 25 Aprile. Ma perché dopo tre quarti di secolo gli italiani si pongono ancora con sentimenti contrastanti di fronte a quest’evento che - riprendendo ancora le parole del Presidente - riportò l’Italia a “sedersi nel novero delle nazioni civili, democratiche, pacifiche, dopo la guerra sanguinaria in cui era precipitata con il fascismo”? Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: sin dall’inizio la festa della liberazione è stata strumentalizzata da quegli schieramenti che all’epoca si affrontarono e opposero, aspramente e crudelmente, in quella vergognosa ma purtroppo indispensabile guerra civile.
Se da un punto di vista storico la narrazione della resistenza al nazifascismo, manifestatasi apertamente durante il biennio 1943-45, ha seguito spesso i canoni della coerenza e della prassi documentale delle fonti, dal punto di vista politico è stata spesso improntata all’uso propagandistico: una narrazione utilizzata, da entrambi gli schieramenti, come una clava nel dibattito politico per il conseguimento di un indispensabile, quanto fatuo e dai risvolti nocivi (in tema unitario), consenso elettorale.
Non voglio dilungarmi oltre su questo argomento, sul quale negli anni si sono espressi autorevolmente ed esaustivamente storici, politici, sociologi ed altri studiosi, ma vorrei concentrarmi su un problema di fondo: perché il nostro paese sta attraversando un periodo di conflittualità, di sfaldamento? Perché al secessionismo predicato da anni da un movimento del nord (non è mai stato un partito in quanto non ha mai perseguito finalità pubbliche relative alla buona gestione dello Stato, ma è nato da un sentimento di astio e di rifiuto verso una parte della popolazione basato su pregiudizi e luoghi comuni), mascherato adesso da finto nazionalismo, cominciano a manifestarsi correnti indipendentiste anche al sud? Può essere soltanto un momento di sbandamento legato alla situazione emergenziale che stiamo vivendo?
Per rispondere in maniera esaustiva a questi interrogativi ovviamente non possono essere sufficienti le poche righe di un articolo. Ed è per questo che voglio soffermarmi soltanto su due aspetti spesso poco considerati quando si affronta analiticamente la storia recente del nostro paese: il ruolo della chiesa e quello del servizio di leva obbligatorio. Entrambe le istituzioni negli ultimi decenni hanno subito enormi stravolgimenti, il servizio di leva è stato addirittura abolito. Ma cosa accomuna queste due istituzioni così agli antipodi? La naja dal 1861 e la chiesa da sempre - con tutte le eccezioni storicamente riportate - hanno svolto in Italia un ruolo sociale fondamentale per la tenuta unitaria del paese.
Lo scambio culturale, inteso nella sua accezione più ampia, la conoscenza diretta “dell’altro”, delle sue tradizioni, usanze, inflessioni dialettali, davano all’esperienza militare un significato che andava ben oltre il mero valore patriottico. Si mescolavano dialetti, pietanze, aneddoti, esperienze di vita che cementavano amicizie, simpatie, modi di intendere. Gli italiani si conoscevano, si toccavano, e gli stereotipi ed i falsi storici (bisogna fare i conti anche con questi) lasciavano spazio alla vita reale.
Così la chiesa, anche attraverso le sue rappresentanze politiche, e forse ancor di più della naja, ha svolto un ruolo preponderante nella condivisione di valori e stili di vita che, dalle alpi alla Sicilia, hanno rinsaldato fortemente i legami tra gli italiani. Quanto era (ed è) bello per un meridionale, trasferitosi al nord, andare a messa la domenica e sentire lo stesso Credo, lo stesso Padre Nostro, lo stesso “la messa è finita, andate in pace”!
Non voglio ulteriormente approfondire l’analisi di questi fenomeni per lasciare al lettore uno spunto di riflessione esente da condizionamenti e basato essenzialmente sulla propria esperienza individuale.
Esprimo però un mio parere: probabilmente la crisi di queste due istituzioni, enormemente diverse e neanche lontanamente paragonabili, ma così “aggreganti”, si riflette in maniera velata, ma fortemente operante, sulla crisi unitaria che sta attraversando il nostro paese.
Per “fare gli italiani", come si auspicava D’Azeglio, forse ci rimane soltanto la nazionale di calcio... Super “Lega” permettendo. Chissà perché c’è sempre una Lega...
Articolo a cura di: Antonino Marino