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L’ultimo romanzo di Bufalino ovvero il patatràc!

Cosa succede quando la vita di uno scrittore che ha fatto della propria esistenza un gioco letterario giunge al capolinea? Come impiega quest’artista il proprio tempo tra un’anestesia e l’altra, tra un by-pass e l’altro? Sicuramente non in preda allo sconforto bensì continuando il proprio gioco, esasperandolo, portandolo alle estreme conseguenze, rendendolo grottesco, aggravando la matassa e giungendo al paradosso. Paradossale è infatti l’ultimo romanzo di Gesualdo Bufalino fin dal titolo: Tommaso e il fotografo cieco. Cosa? Come può una persona non vedente svolgere la professione di fotografo? Ma tutto ciò non è ancora abbastanza per il faceto autore siciliano! Bufalino vuole proprio divertirsi, così il fotografo cieco dal nome Tiresia (il rimando è lampante) rimane vittima di un omicidio per qualcosa che ha visto e che non avrebbe dovuto vedere. E ancora una volta ci chiediamo: com’è possibile? È l’obiettivo della sua macchina fotografica a sostituire il suo sguardo – catturando così di nascosto (o almeno lui crede) le immagini della sorella mentre dorme nuda mostrandole poi compiaciuto all’amico Tommaso il quale imbarazzato non sa in che modo rivelargli che la sorella è perfettamente consapevole di quegli scatti – e un rullino in particolare lo farà cacciare nei guai.



Insomma, la vita di Bufalino sta per giungere al termine e lo scrittore sa di doversi a breve ritrovare al cospetto del Padre Eterno tanto ricercato, ironizzato, mascherato ed emulato nei propri romanzi e a questo attesissimo confronto non vuole farsi cogliere impreparato. Così architetta perfettamente l’ultimo romanzo di cui è demiurgo, creatore e metacreatore, creando un universo parallelo che al suo interno ne contiene un altro, fatto di labirinti cartacei e visuali, che nascono dal calco dell’universo di riferimento, ma poi lo deformano:


«io volevo soltanto architettare un lieve-grave merzibild di citazioni nascoste, esplosivo sì, ma non più di un petardo o di un palloncino. Con una contemplazione della morte, ma strabica. Per ridere sai, per stare meglio. Col solo impegno di far quadrare alla fine il bilancio»


Dichiara l’autore in un’intervista. Bufalino ha sempre adottato un punto di vista sgangherato nell’osservazione del reale e nella riproduzione di questo nei propri romanzi, ma stavolta esagera e va oltre il limite adottando un punto di vista cieco e rappresentando il proprio mondo per interposta persona (o oggetto, vedi il rullino). Inevitabilmente questo ideale passa per la via dello stile, attraverso una penna che, come già dichiarava Saba, non ha paura di citare il già detto e tutta l’opera di Bufalino, si sa, è permeata di esibiti metaletterarietà e citazionismo il più delle volte apertamente dichiarati e addirittura ostentati, esito di un lungo apprendistato di lettore che trova modo di manifestarsi in una scrittura sempre colta e ricercata, che si inserisce nella tradizione in maniera autoreferenziale, ad esempio quando a pagina 146 della II Edizione Tascabili Bompiani del maggio 2016 scrive:


«è mia cogente abitudine, a somiglianza d’un lamentoso d'altri tempi, di vedere il meglio e appigliarmi al peggio»


Citando espressamente e parodisticamente la fortunata tradizione petrarchersca “et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio” traduzione dell’originaria espressione “video meliora proboque, deteriora sequor” usata da Ovidio nelle Metamorfosi e ripresa ancora da Sant’Agostino a Spinoza a Hobbes.


Bufalino, giunto all’epilogo della propria vita si diverte a creare un’opera che si istituisce come un gioco fatto di rimandi e di illusioni ottiche capace di occultare quasi del tutto l’oggetto rappresentato complicando ulteriormente il tutto con un coup de théâtre che rimescola di nuovo le carte, come «un serpente che si morde la coda: quando tutto sembra finire, tutto sembra ricominciare. Per usare parole grosse, il paratesto entra nel testo e lo confuta. Col maleducato proposito di scoraggiare la credulità del lettore» dichiara ancora l’autore che nel finale del romanzo realizza un vero patatràc, che oltre a essere il sottotitolo del romanzo, riportato in frontespizio ma non in copertina, e oltre ad anticipare qualcosa sul finale della narrazione allude anche al crollo della forma-romanzo, condotta ormai dall’autore ben oltre il punto di non ritorno nella sua traiettoria di fuga dalla verità sancendo così l’impossibilità di produrre senso da parte della letteratura come ha magistralmente evidenziato Stefano Giovanardi nella prefazione del libro.


Articolo a cura di: Sabrina Russo



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