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L’ultimo giorno di un condannato

Si immagini di trovarsi di fronte a un gruppo di fogli ingialliti, stracci che portano i segni di un tempo mai stato o forse immemorabilmente lontano, oggetti senza valore sulla cui superficie è impressa l’inestimabile traccia dell’ultimo giorno di un miserabile.

È così che, nei panni di un sognatore intento ad analizzare una così delicata situazione, Victor Hugo ci trasporta nelle memorie di un condannato a morte, uno qualsiasi, proprio ad affermare che l’orrore della pena capitale rimarrebbe una barbarie anche se alla ghigliottina ci andasse Mefisto.



Si immagini ora di stare dall’altro lato di quei fogli, dalla parte di chi scrive, in una gabbia del corpo, ma soprattutto della mente, con il cuore dentro una morsa che porta il nome di “condannato a morte”. Si immagini di conoscere il giorno e l’ora della propria dipartita, di conoscerne anche la causa e la colpa, si immagini di non avere più la possibilità di modificare il corso degli eventi, mai più. E dunque se questa angoscia fosse compressa nel claustrofobico metro quadro concesso da chi decide e con premura porta a compimento l’omicidio che priva un uomo del proprio amore, della propria bambina, della vita e, ancor prima, della libertà, quali demoni genererebbe la mente del povero malcapitato?



I ricordi raccontano con intensa nostalgia una vita che sembra, d’un tratto, incantevole e ricca e che, avvolta da una luce di rassicurante calore, pare, ormai, appartenuta ad un altro. Il tempo del gioioso e libero volare dei pensieri è già concluso e ad arrestarne la corsa si staglia la visione del proprio corpo in catene, i secondini, gli incubi incessanti, l’oscurità di una prigione, nonché il continuo rimando a quell’orribile idea di morte ormai insediatasi in ogni frammento dell’anima come un cancro che ruba e distrugge.

Nelle tenebre in cui sono calati gli ultimi giorni di un miserabile, attimi di vita provengono dagli spiragli di Sole che si riflettono sul soffitto, unica presenza rassicurante ammessa in visita ai reietti.

Tutto è profondamente tetro, ogni suono è simile allo stridere di lame di coltelli, ogni pensiero immerso nel terrore, ma nonostante ciò nessuno sembra comprendere cosa prova un uomo, nessuno rivolge uno sguardo di affetto, empatia o semplice compassione a un miserabile, tutti sembrano indifferenti alle sorti di un condannato che per tutti è pari a un fantoccio senza intelligenza, senza quell’anima che in realtà non è pronta alla morte e, d’altronde, ormai egli è qualcosa di più simile a un fantasma che a un uomo e solo la sua bimba riuscirebbe a renderlo ancora una volta, per qualche minuto, se stesso.


Ogni parola di questo libro, ogni immagine che esso imprime nella mente, trasporta il lettore nella realtà che un condannato a morte vive o, più propriamente, subisce, coinvolgendo anche chi legge in quella che è una tortura incessante, permettendo di comprendere l’atrocità della sofferenza e il terrore più puro, affermando quanto sia pericoloso pensare di “poter uccidere senza far male”, elevare la legge morale al di sopra della vita umana, arrogarsi un diritto immondo e mostruoso.


Articolo a cura di: Miriam Stillitano



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