L’inquilino del terzo piano. La follia della realtà e la realtà della follia
Come di fronte a un’opera d’arte, la manifesta vacuità di qualsivoglia termine che osi accostarsi a un prodotto strabiliante, lascia spazio a un silenzio contemplativo della profondità e dell’anima stessa della creatura che si ha di fronte; allo stesso modo, davanti allo scorrere dei fotogrammi di un prodotto quantomai vivo, si rimane senza parole nel constatare la cura maniacalmente minuziosa con cui il regista scolpisce in ogni scena ogni più piccolo dettaglio, dando vita a quello che senza dubbio smette di essere film e diventa arte a 360 gradi.
Un prodotto cinematografico che rispetti questo canone, dunque, non può che essere trattato nella propria interezza, seppur ciò costringa a svelare gli sviluppi di un film che, in questo caso specifico, vive proprio del suo svolgersi eterno.
L’opera in questione risale al 1976 e porta in scena il romanzo di Roland Topor, “Le Locataire Chimérique”, attraverso l’arte e la poetica di Roman Polanski che ne è regista e interprete.

Il corso degli eventi ha come origine – o almeno così fa credere il regista all’inizio del film – il momento in cui Trelkowski, un modesto impiegato polacco in cerca di un appartamento a Parigi, trova il luogo adatto a stabilirsi in un condominio abitato da personaggi fin da subito poco ospitali. L’appartamento, pieno ancora degli effetti personali della precedente affittuaria, aveva ospitato fino a qualche giorno prima una donna chiamata Simone Choule, la quale, suicidatasi dalla finestra dell’appartamento, trascorreva in ospedale le ultime ore di vita. Trelkowski, scosso dalla notizia, si reca in ospedale a visitare la donna, la quale, bendata come una mummia, alla vista dell’impiegato, quasi come lo riconoscesse, scoppia in un urlo disperato. In ospedale Trelkowski conosce una ragazza, amica di Simone che, come unica figura benevola, lo accompagnerà per tutto il corso del film. La ragazza, Stella, è infatti unico rifugio per Trelkowski, il quale, presto, si ritroverà coinvolto in una escalation di follia animata da un mix perfetto di pressione psicologica esercitata dai propri vicini di casa e manie persecutorie del protagonista.
È a questo punto che si rivela a pieno la strabiliante abilità di Polanski nel dosare perfettamente ogni elemento, costruendo un ingranaggio perfetto. Soprattutto nella sfera psicologica si può notare come sembri quasi che i condizionamenti esterni e i turbamenti interni alla psiche del protagonista si trovino sempre in equilibrio: Trelkowski appare fin da subito un uomo pacato, forse eccessivamente, il quale, inizialmente, anche di fronte alle pressioni più soffocanti e inopportune si dimostra serafico e accondiscendente; con il passare dei giorni, tuttavia, l’atteggiamento del protagonista muta, egli avverte che la propria vita è minacciata dai condomini i quali starebbero tentando di condurlo al suicidio proprio come fecero con Simone Choule. In una prima fase, dunque, allo spettatore i condomini appaiono terribilmente soffocanti e realmente minacciosi, ma dopo il crollo psicologico di Trelkowski e una fase di “plateau”, nulla è più chiaro al pubblico e si insinua sempre più insistentemente il dubbio che la minaccia che il protagonista avverte non sia reale, ma sia solo la manifestazione della propria follia.
Con lo scorrere dei minuti, infatti, lasciando in secondo piano l’intervento delle figure intorno a Trelkowski, aumenta lo spazio concesso all’indagine psicologica e interiore del personaggio, il quale, sempre più preda di un vortice di follia, suscita quasi pena, esprimendo in modo tragicamente ironico tutto il proprio disagio, in un’atmosfera che diventa sempre più insopportabilmente claustrofobica, anche grazie ad artifici geniali utilizzati dal regista, che costruisce ad arte un incubo nella realtà, attraverso, ad esempio, il ticchettio incessante di sveglie, rubinetti e qualsiasi oggetto possa trovarsi nella stanza in cui si trova l’impiegato, ticchettio che fa da sottofondo a tutto il film, quasi come se davvero il rumore, che rappresenta per altro la principale colpa imputata al protagonista dai propri vicini, lo perseguitasse realmente. Un altro artificio capace di deliziare lo spettatore è rappresentato dalla scenografia a tratti teatrale, come nel caso della sedia disegnata o del teatro allestito nel cortile del condominio.
Dulcis in fundo, l’aspetto più stupefacente del film, Polanski lo conserva per il finale: Trelkowski, stremato e ormai dissociato da sé, incapace di separarsi dall’alter ego ispirato a Simone Choule, la stessa Simone Choule dalla cui fine voleva allontanarsi e la stessa alla cui fine si ispirerà, si lascia cadere per due volte dalla finestra del proprio appartamento. Ritrovatosi in ospedale, aprendo gli occhi, Trelkowski ha di fronte se stesso, e mentre lo spettatore rivede la scena iniziale, Simone o Trelkowski, ormai nessuno può dirlo, getta lo stesso urlo straziato che si è udito nei primi minuti dell’opera, preda di un ciclo perpetuo di sofferenza.
Articolo a cura di: Miriam Stillitano