L’infanzia come il Segno, il ragno come la Madre
«Mi chiamo Louise Josephine Bourgeois. Sono nata il 24 dicembre a Parigi. Tutto il mio lavoro degli ultimi cinquant’anni, tutti i miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero e non ha mai perso il suo dramma».

Ferite. Così ha inizio la carriera di una grande donna, la portavoce delle memorie del corpo e della mente, tradotte in un’arte, che è sinonimo di liberazione e voce. Un’arte sofferta, ma altresì tenace, che pulserà lasciandosi narrare fino al 2010, spegnendosi a quasi un secolo di vita.
Nasce a Parigi la vigilia di Natale del 1911, Louise Bourgeois, in una famiglia di restauratori di arazzi. Agli inizi fu la teoria a ruotarle attorno, mossa dal rigore a cui era stata educata. Si orientò verso la facoltà di matematica, per poi abbandonarla pochi anni dopo, a seguito non della prima, ma della più grande ferita, la scomparsa di sua
madre, causa di una forte depressione. Sarà la pittura a risollevarle l’anima, spingendola poi a intraprendere l’arte della scultura, in quanto figurazione che più ritrae la sofferenza del passato, la tensione che ha imparato a gestire solo sopravvivendo ai drammi famigliari, la rabbia e le paure represse nel suo inconscio. Si iscrisse così all‘École des Beaux-Arts e successivamente, a l’École du Louvre.
«Ho bisogno delle mie memorie. Sono i miei documenti. Li sorveglio con cura. Sono la mia intimità e ne sono immensamente gelosa»
La sua arte opera un’immersione critica nel proprio bagaglio delle esperienze, filtrandole concretamente per poi riemergere come reificata, ovvero riproponendo il ricordo sedato o riacceso dall’atto creativo. Attua il superamento della materia lasciando che sia il dolore a lasciare il segno sul corpo, così le nudità restano visibili, mostrando le ferite di una sofferenza profonda e psicologica. Le opere spesso mutilate e angoscianti rivelano la solitudine dell’essere umano, nel suo caso dovuta ad un padre assente e ad una madre impassibile dinnanzi agli eventi, dunque la sofferenza che comporta l’esistenza e un certo vissuto. L’uomo come individuo abbandonato alle macerie carnarie, come mostra ne “La distruzione del padre” (1974) e il tema della donna, trattato in modo crudo e fragile allo stesso tempo, in particolare la maternità e la protezione celata in un abbraccio a otto arti, l’anatomia del corpo e la figurazione del parto.
In “Femme maison” (1942-1947) il corpo della donna sembra nascondersi in fattezze tutt’altro che umane, ma che attraverso il soggetto incarnano il senso di protezione che la madre attua. Una casa dai tratti antropomorfi, suggerisce anche l’intimità domestica e il limite tra il pericolo esterno, sconosciuto, e l’interno, ambiente sicuro. L’opera in questo caso simboleggia il superamento dei confini, l’andare oltre il corpo per liberare il pensiero. È il parto però l’atto che più descrive l’attraversamento di un confine fisico, in quanto il varco da superare è l’accesso per la nuova vita. Inoltre è proprio qui che sviscera la verginità, la nudità e l’anatomia drammatica e universale della donna, messa in luce, senza filtri; come nell’opera “Spider (Cell)” del 1997, dove appunto un enorme ragno sovrasta una cella, rappresentante il feto. La madre se ne prende cura durante il plasmarsi, fino a quando partorendolo non lascia che con lui si distacchi anche una parte di sé che gli apparterrà per sempre.
«Il ragno è un’ode a mia madre. Lei era la mia migliore amica. Come un ragno, mia madre era una tessitrice. La mia famiglia era nel settore del restauro di arazzi e mia madre si occupava del laboratorio. Come i ragni, mia madre era molto brava. I ragni sono presenze amichevoli che mangiano le zanzare. Sappiamo che le zanzare diffondono malattie e per questo sono indesiderate. Così, i ragni sono protettivi e pronti, proprio come mia madre».
Si chiama “Maman” (1999), la più grande, nonché celebre, scultura dell’artista, in bronzo, acciaio inossidabile e marmo, la cui misura prevede 30 piedi di altezza e oltre 33 piedi di larghezza, realizzata in molteplice copia e collocata accanto ai musei più importanti a livello mondiale: New York, Tokyo, Bilbao, Seoul, Ottawa, Doha e a Bentonville. Si tratta di veri e propri aracnidi dotati di una sacca contenente uova di marmo, un inno alla maternità e ancora una volta al grembo e l’atteggiamento difensivo. Le lunghe zampe creano una gabbia sotto la quale i visitatori sono liberi di passare e sostare, potendosi sentire parte dell’opera e parte di un abbraccio leggero, dovuto alla sottigliezza degli arti, che stringe tutti e in egual modo. È così che riesce a ribaltare la figura di un animale, spesso indesiderato, costruendo un simbolo dal significato deciso, importante e universale.
«Dal momento che le paure del passato sono collegate alle funzioni del corpo, esse riappaiono attraverso il corpo. Per me la scultura è il corpo. Il mio corpo è la mia scultura».
Vi presento Louise Bourgois, a voi scoprirla.
Articolo a cura di: Matilda Balboni