L’esperimento di René Spitz. Come la solitudine uccide - letteralmente -
Avete mai avuto la spiacevole sensazione di un mal di pancia prima di un esame importante, o mal di testa dopo una giornata stressante? Tutte malattie psicosomatiche, risposte fisiche ad un disagio psicologico, spostamenti del dolore in luoghi nei quali è facile gestirlo: dalla mente – e dal cuore – al corpo.
Ma cosa può succedere quando un essere umano viene privato di ciò che lo rende tale? L’amore, l’affetto, l’empatia… Se gli effetti sulla psiche, è chiaro, sono devastanti, prima di questo esperimento gli studiosi non avevano compreso quanto potessero essere gravi sul corpo.

Anni ‘40 del 1900, lo psicoanalista austriaco René Spitz, ispirandosi agli studi di Freud, si interessa allo sviluppo del bambino. Lavora come psichiatra al Mount Sinai Hospital e detiene la cattedra in diverse università statunitensi.
Conduce degli studi sul campo, osserva i bambini nelle scuole, negli ospedali e negli orfanotrofi.
Volendo approfondire gli effetti della deprivazione emotiva nei bambini, cioè di piccoli che venivano separati in modo improvviso dalla persona che si prende cura di loro, decide di condurre un esperimento che oggi non sarebbe legale, tanto meno deontologicamente corretto, passato alla storia per il suo funesto esito.
Spitz studiò due gruppi di bambini:
Il primo era un gruppo di bambini cresciuti nelle prigioni dove erano detenute le madri: queste, però, erano autorizzate a vederli, a giocare con loro e a prendersene cura.
Il secondo gruppo vede dei bambini allevati in un orfanotrofio, nel quale pochi infermieri si dovevano occupare dei piccoli, con chiare istruzioni: niente legami affettivi, niente giochi, niente contatto. A questi bambini doveva essere dato tutto per la sopravvivenza fisica – igiene, cibo, abbigliamento – ma niente per quella emotiva.
All’età di quattro mesi lo stato di sviluppo dei due gruppi era simile, ma solo qualche mese dopo, soprattutto dall’anno di vita in poi, cominciarono ad essere evidenti le drammatiche conseguenze delle mancanze affettive: le prestazioni intellettuali dei bambini cresciuti nell’orfanotrofio erano molto ritardate rispetto al normale, ed in generale erano meno attivi, curiosi, più predisposti ad ammalarsi rispetto ai bambini del carcere.
Concentriamoci sull’ultima affermazione: i bambini cresciuti con deprivazione emotiva erano più soggetti ad infezioni e virus. Il primo segnale di quanto la sfera emotiva possa condizionare quella fisica. Ancora oggi rimangono molti punti d’ombra su questo collegamento, ma gli sviluppi di questo esperimento dimostrano senza ogni dubbio quanto forte sia l’associazione.
Durante il loro secondo e terzo anno di vita, i bambini cresciuti in carcere, con le loro figure di attaccamento, camminavano, parlavano e mostravano tutti i gradi di sviluppo di un bambino normale.
Superati i due anni, solo due dei bambini in orfanotrofio riuscivano a camminare e parlare.
Spitz descrisse progressivamente i comportamenti dei bambini cresciuti senza affetto, dopo essere stati tolti alla madre o da chi se ne prendeva cura:
Primo mese: lamentele e richiami
Secondo mese: pianto e perdita di peso
Terzo mese: rifiuto del contatto fisico, insonnia, ritardo nello sviluppo motorio, assenza di mimica, perdita continua di peso
Dopo il terzo mese: stato letargico o ospitalismo, che Spitz definirà nel 1945 depressione anaclitica.

Secondo lo scienziato, qualora la deprivazione emotiva duri per un periodo superiore a 4 mesi, tutti i sintomi si aggravano: ritardo psicomotorio, inappetenza, insonnia, incapacità di esprimere le proprie emozioni e instaurare sane relazioni sociali – il che dimostra inoltre quanto la capacità emotiva e empatica sia appresa nella società piuttosto che innata.
Se il bambino si ricongiunge all’oggetto d’amore entro tre-cinque mesi, il recupero è rapido; ma, se si supera questa soglia, la sintomatologia sarà molto più grave e irreversibile. Non sono arrivate a noi fonti precise sui numeri, ma sappiamo per certo che quasi tutti i bambini cresciuti in orfanotrofio si ammalarono, e nel corso di pochi mesi la maggior parte di essi morì: quindi, l’esperimento fu terminato.
Nel 1952 fu realizzato “Psychogenic Disease in Infancy”, un cortometraggio che ha registrato lo sviluppo delle ricerche dello psicoanalista.
Spitz ebbe il merito di definire la depressione infantile in un periodo storico in cui si riteneva che questo tipo di malattia potesse colpire solo gli adulti.
I suoi studi sono inoltre stati i primi a dimostrare sistematicamente che le interazioni sociali con gli altri esseri umani sono essenziali per lo sviluppo dei bambini e hanno avviato una rivoluzione nella gestione degli orfanotrofi.
Ma a che prezzo? Vite sacrificate sull’altare della scienza.
Se possiamo trarre una morale da questo terribile esperimento, è che l’affetto è più importante di qualsiasi bene materiale, del cibo persino.
Che per l’essere umano è più importante sentire, che possedere; che di solitudine si muore, ma per davvero.
Articolo a cura di: Arianna Roetta