L’effetto Lucifero
Ci siamo posti tutti, almeno una volta nella vita, questa domanda: “Io cosa avrei fatto al suo posto?”

Quante volte abbiamo provato a metterci nei panni di un protestante violento, di un soldato nella Seconda Guerra mondiale o di un leader estremista? Non consideriamo mai nelle nostre riflessioni l’idea che l’individuo si adatti al gruppo di appartenenza, assumendo ruoli talvolta lontani da quelli che egli stesso aveva previsto. Ci sembra che lo spazio che ci separa da loro sia incolmabile. Ma c’è davvero una linea così netta tra normale e anormale, tra vittima e carnefice? Il male è malato e mostruoso come siamo abituati a pensarlo?
Per rispondere a questa domanda, andiamo nel 1971, a Stanford, dove un gruppo di ricercatori diretto dal professor Philip Zimbardo conduce un esperimento sociologico, i cui risultati sono talmente drammatici da costringere gli autori dello studio a terminare la sperimentazione prima del previsto. L’esperimento parte come premessa dal concetto di deindividuazione, in cui assistiamo ad una spersonalizzazione dell’individuo che, inserito in un gruppo, perde la propria individualità, il proprio modo di pensare, il proprio senso di responsabilità e consapevolezza, cadendo in azioni antisociali.
Nell’estate del 1971, nel seminterrato dell'Istituto di psicologia dell’Università di Stanford a Palo Alto, ventiquattro volontari vengono introdotti in una riproduzione fedele dell’ambiente di un carcere. Dei rispondenti all’annuncio furono selezionati gli studenti più equilibrati e meno tendenti a comportamenti violenti e devianti. A metà di questi fu assegnato il ruolo di prigionieri: perciò, furono obbligati ad indossare divise numerate e ad indossare catene. Invece, le guardie furono vestite con uniformi, occhiali da sole e dotate di manganelli e manette. L’abbigliamento fu il primo importante passo per porre entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione.
Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza. Le guardie cominciarono ad usare metodi sadici di intimidazione e umiliazione, obbligando i detenuti a cantare e ballare e facendogli pulire i bagni a mani nude. Dall’altra parte, i detenuti cominciarono a manifestare segni di cedimento psicologico, implorando di tornare a casa. Inoltre, questi si unirono in atti di ribellione, strappandosi le divise di dosso e tentando un’evasione di massa che fu contenuta a fatica da guardie e ricercatori. Il mondo reale in pochi giorni era scomparso: esisteva solo la prigione. Le singole persone, diverse fra loro, non c’erano più: esistevano solo guardie e prigionieri. L’esperienza psicologica vissuta da entrambe le parti aveva compromesso il loro rapporto con la realtà.
Già oltre i limiti di ciò che oggi potrebbe essere definito deontologicamente corretto, e forse anche legale, il gruppo di ricercatori decise di interrompere l’esperimento dopo soli cinque giorni, a fronte delle due settimane inizialmente previste. Ma cos’è successo che, in pochi giorni, ha cambiato così radicalmente le personalità che si sono sviluppate nel corso di decenni di vita? Gli individui – prima di tutto – hanno attraversato un processo di deindividuazione che, all’interno del gruppo, ha inibito il loro senso di colpa, la vergogna, la paura, portandoli a non considerare l’effetto delle loro azioni. Inoltre, come già aveva dimostrato lo studioso Milgram negli anni ’60 – con l’esperimento sul nesso autorità - obbedienza – quando un individuo assume un ruolo istituzionale, come quello di guardia, tende a adeguare il suo comportamento alle norme di tale istituzione. Le guardie, così come i prigionieri, hanno “ridefinito la situazione” sulla base del ruolo che era stato loro assegnato, perdendo autonomia comportamentale.
Tornando alla nostra domanda iniziale, possiamo allora affermare che esista uno stretto collegamento tra ruolo che assumiamo e il comportamento che terremo, fra il potere che ci viene conferito e quanto, di conseguenza, ci sentiremo legittimati ad usarlo. Basandoci solo sui fatti, ventiquattro persone perfettamente ordinarie ed equilibrate, inserite in contesti straordinari, in cinque giorni, sono diventate violente e sadiche. L’esperimento di Zimbardo ci dimostra che nessuno è immune al rischio di commettere azioni violente e che, come ha descritto perfettamente Hannah Arendt ne “La banalità del male”, non esiste una linea netta fra persone normali e “mostri”; ma esistono solo persone normali che, per ragioni più o meno complesse, compiono azioni cattive. Se l’esperimento ha suscitato la vostra curiosità, ciò che accadde in quei cinque giorni è dettagliatamente descritto nel saggio di Zimbardo, che egli stesso intitola eloquentemente “L’effetto Lucifero”.
Arianna Roetta