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L’arte della persuasione

La natura dei popoli è varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.

Niccolò Machiavelli



Il linguaggio, mezzo di comunicazione per eccellenza, può essere osservato anche dall’angolazione più affascinante e pericolosa: l’arte della persuasione. Se adoperato con la giusta bravura e una grande dose di carisma – il linguaggio – può diventare un fido alleato per il raggiungimento degli obiettivi più lodevoli; di contro, però, è pur vero che possa costituire al contempo la più letale delle armi in possesso dell’uomo.


Senza alcuna ombra di dubbio, l’impiego dell’arte della persuasione ha accompagnato l’uomo durante tutto il suo percorso sulla terra, sin da quando Empedocle di Agrigento diede vita alla retorica, fino a giungere al secolo scorso, che vide emergere numerosi populisti capaci di convincere l’uomo di qualunque cosa, anche che la terra fosse piatta.

Nonostante spesso la forma del discorso fosse ben curata, attraverso l’utilizzo di aforismi, frasi brevi e semplici, pause diffuse, contatto diretto con l’interlocutore e toni rassicuranti, non sempre il contenuto raggiunse un risultato apprezzabile.

In generale, sebbene le tecniche, la scelta delle parole e i movimenti sembrino ovvi ad un attento riesame, il buon oratore, a primo acchito, ci lascia sbalorditi.


La nostra analisi, storicamente, può cominciare dall’antica Grecia: in particolare, non con riferimento ad un retore comunissimo; piuttosto, parlando di un autore poco conosciuto. Al I sec. a.C risale l’opera “Sul Sublime”, che viene attribuita – con qualche dubbio – a un certo Dionisio Longino, grazie al codice “Parisinus Graecus”.


Paternità dell’opera a parte, il “Trattato sul Sublime”, dedicato al nobile romano Postumio Floro Terenziano, dopo aver approfondito gli autori della letteratura greca e latina, tratta il problema della decadenza dell’oratoria e la figura dell’oratore. L’autore ritiene che la decadenza dell’oratoria non sia da attribuire a un’ipotetica crisi delle scuole di retorica, ma alla corruzione dei costumi: dunque, non si parla di perdita della libertà, come accadeva per alcuni autori, bensì di cambiamento della condizione umana che incide sull’elaborazione retorica.

In più, il linguaggio del Sublime, necessario a un oratore, deriva da cinque diverse fonti: le prime due sono disposizioni innate, cioè la capacità di esprimere grandi concezioni e l’impiego di una passione profonda e ispirata; le successive possono essere conseguite per mezzo della τέχνη, cioè la sapiente costruzione di parola e pensiero, la nobiltà d’espressione e la disposizione solenne ed elevata delle parole. Perciò, il grande oratore deve sì avere il dono naturale delle grandi concezioni, ma anche essere polytropos come Ulisse, senza essere ignobile né tantomeno meschino. Quindi, se il mediocre segue solamente le regole formali senza spingersi oltre, il genio opera seguendo il rapporto ordine/disordine per generare delle forti emozioni.



Sulla sponda latina, invece, nel dibattito sulla decadenza dell'oratoria e la figura dell'oratore si inserì Quintiliano, con un saggio “De causis corruptae eloquentiae”, successivamente perduto. L’autore individua le ragioni della crisi dell’oratoria nei difetti interni al sistema di insegnamento e non nelle mutate condizioni sociopolitiche derivanti dal passaggio dalla repubblica al principato. In questa prospettiva, nella sua riforma dell’insegnamento della retorica, Quintiliano risulta consapevole del debito nei confronti della tradizione greca, evidenziando il bagaglio di conoscenze e competenze tecniche che il perfetto oratore deve possedere: pertanto, l’oratore dev’essere un vir bonus dicendi peritus, come diceva Catone il censore; il perfetto oratore non è destinato a esercitare le proprie capacità nelle aule di tribunale, né prendere parola in ambito politico, poichè è un professionista della parola che mette a servizio della comunità le sue capacità…quindi, è un servitore dello Stato onesto e scrupoloso. In definitiva, il perfetto oratore deve servirsi della mimesis – cioè dell’imitazione – che non sia pedissequa o acritica, ma profonda rielaborazione personale.


Articolo a cura di: Elenio Bolognese



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