Kurt Cobain “Also an angel can fall”
Un nome che non ha bisogno di presentazioni, conosciuto sia dai suoi cultori, che da chi non se ne intende; un volto che ha fatto il giro del mondo, la cui musica ha riempito gli auricolari della metà della popolazione mondiale. E d’altronde di lui rimangono di fatti le sue fotografie e la sua musica.

Proprio per la sua grande fama, non intendo tracciare la storia biografica di Cobain, ma concentrarmi sull’importanza storica di questo personaggio e sul propagarsi della sua celebrità, anche dopo la morte.
Kurt Cobain si inserisce nell’ “alluvione”, oserei chiamarla così, della musica grunge, nata nei bassifondi di Seattle, con artisti come i Mudhoney, o Andrew Wood; particolari di questo genere musicale erano i testi ricchi di problematiche, tristezze e sfoghi personali, misti ad una musicalità incalzante e martellante, condita da un vestiario che ha dello scialbo e del trasandato, a significare una distanza completa dalla “normalità”, richiesta da una società che non conosce i disagi della nuova generazione.
Kurt fa parte di un gruppo tale e quale agli altri, che cercano attenzione, magari un’etichetta discografica indipendente e un compenso in denaro che potesse tirarli fuori dalla vita di strada che conducevano e che chiaramente potesse soddisfare le loro dipendenze dagli stupefacenti.
Dal nome si comprende già l’essenza della loro attività musicale: “Nirvana”. Lo stesso Cobain in un’intervista dichiarò: “Sul dizionario “Nirvana” significa libertà dal dolore, dalla sofferenza del mondo esterno: è quanto di più vicino alla mia definizione di punk rock.”; il pathos che si cela dietro queste parole è visibilmente esternazione di un’interiorità tormentata, abbandonata dai genitori, dagli amici, che si rincantuccia nell’oblio dell’eroina e che utilizza la musica come momento catartico nella quotidianità.
Ciò è evidente dalla lettura dei testi dei brani. Il cantante in una delle sue ultime composizioni, prima del suicidio, intitolata “Do Re Mi”, ripete nel ritornello “do re mi, don’t rape me”, ovvero “non stupratemi, non usatemi”. Cobain fa riferimento all’eccessiva attenzione che i fan, già dall’uscita del loro primo album “Bleach”, davano ai suoi testi, che secondo lui, invece, erano vuoti e per lo più ritmici.
Ma dalla lettura risulta proprio il contrario, Kurt diviene interprete della stesura di una nuova poetica, di una nuova maniera di poesia; tratta di temi espliciti con un linguaggio e un’enfasi che potrebbe far invidia a qualunque compositore, ed alcuni hanno osato definirlo un “filosofo che scrive in versi”. Niente di più vero: dall’esperienza Nirvana, nasce una nuova corrente musicale e testuale, che giunge fino ai giorni nostri e di cui, tutt’ora, gli artisti si servono ampiamente. Si parla di empatia e schiettezza nel mostrare i propri disagi, malinconia per una felicità che sembra lambirci e poi sparire in un baleno, trasmessa tramite un’ipotassi che fa apparire il testo dell’autore rivolto all’ascoltatore, nello stesso modo in cui ci si confesserebbe ad un amico, o ad uno psicologo.
Superlativa rilevanza ha avuto il dibattito che avvenne intorno alla morte del cantante, avvenuta per suicidio tramite un colpo di fucile, che tra l’altro nasconde ancora oggi misteri e confuse verità. Ciò che ha fatto discutere è l’approccio alla tematica del suicidio da parte della società del nuovo millennio, che ha iniziato ha comprenderlo aldilà dei tabù che lo ricoprivano da tempo.
Cobain rappresenta inoltre lo spirito che intercorre tra la musica e la tecnica. Ci si chiede ancora oggi se nel comporre un brano conti molto più la sonorità o il contenuto, il virtuosismo dell’artista, o l’emozione che riesce a trasmettere. Kurt Cobain seguì una sola settimana di lezioni musicali, riuscendo ad imparare esclusivamente gli accordi di Mi, La e Si, ovvero quelli che bisognava conoscere per suonare la famosissima “Louie Louie”. Ascoltando i vari album si comprende che Cobain sicuramente non fu un virtuoso, un tecnico della chitarra, eppure Steve Vai rimase estasiato davanti alla sua chitarra.
Kurt rimane sicuramente uno dei migliori chitarristi degli anni ’90 che arrivò a occupare la dodicesima posizione nella top 100 dei migliori chitarristi per la rivista Rolling Stone.
Cobain ha trasformato il mondo della musica, con la sua semplicità ha saputo interpretare nella maniera più originale ed individuale possibile le esigenze dei nuovi orizzonti musicali, arrivando ad istruire ancor oggi la musica nascente.
Articolo a cura di: Marco Mariani