Judas and the Black Messiah: fratellanza e tradimento
Rilasciato nel febbraio scorso, Judas and the Black Messiah si rivela una pellicola dal tratto documentaristico (seppur la trama nel complesso lasci ampio respiro alla reinterpretazione) sorprendente. L’opera, diretta da Shaka King, si sforza di analizzare un periodo storico non soltanto piuttosto acceso e controverso, ma spesso anche considerato – erroneamente – ormai sdoganato. Concentrandosi – attraverso l’interpretazione magistrale di Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield – sull’aspro scontro che coinvolse l’America degli anni 60’, la pellicola ripercorre gli sforzi dei movimenti antirazzisti sorti dopo gli omicidi dei due più celebri leader afroamericani, Martin Luther King e Malcom X.

Il titolo dell’opera non si rivela affatto casuale, anzi: la trama si concentra sull’omicidio dell’appena ventenne Fred Hampton, guida e in un certo senso profeta della divisione del Black Panther Party di Chicago, a tutti gli effetti tradito da uno da uno dei più fidati “fratelli” del movimento d’appartenenza, il giovane William O’ Neal.
La scelta di Shaka King si mostra decisamente azzeccata, l’opera difatti esprime una maturità autoriale necessaria per la ricostruzione di un evento storico realmente verificatosi: pur esasperando la drammaticità di quanto riportato, la pellicola non prende le parti né della vittima né del carnefice, ma verosimilmente si sofferma sull’influenza coercitiva che l’Fbi esercitò sul giovane, costringendolo ad una collaborazione sempre più forzata che sfociò, in conclusione, con il tragico omicidio di Hampton e, successivamente, l’apparente suicidio dello stesso O’ Neal.
Lo scenario riportato delinea a tratti estremamente crudi lo stigma razziale che caratterizzò e che tutt’oggi attanaglia gli Stati Uniti, evidenziando l’impegno del governo stesso e dei servizi segreti nel reprimere la spinta progressista dei movimenti antirazziali – che al tempo vennero direttamente associati alle correnti filo-comuniste represse negli Stati del blocco democratico americano. I movimenti che lottarono, sia letteralmente sia pacificamente, per i diritti delle minoranze afroamericane, furono immediatamente identificati con un pericoloso nemico insito nei confini nazionali, da estirpare con ogni mezzo, anche a costo di ricorrere alle tristemente note pratiche oppressive di ispirazione fascista.
Il “Messia nero” ritratto nella pellicola di King, difatti, abbraccia gli ideali marxisti-leninisti e alterna la sua attività di resistenza fra l’ambito culturale e la lotta armata. Il giovane leader è ben conscio di come questa non possa essere sufficiente alla liberazione, o perlomeno all’acquisizione dei diritti fondamentali degli afroamericani, ma che invece siano proprio la scolarizzazione e l’educazione impartite ai giovani della propria città a far la differenza nell’emancipazione di un popolo oppresso. Hampton si occupa, attraverso il partito, anche di coprire le spese delle famiglie più bisognose e di offrire un servizio di ristorazione per coloro che ne necessitino, tuttavia ciò non si dimostrerà abbastanza per impedire che egli venga dipinto come una minaccia per la sicurezza nazionale: la sua oratoria carismatica, più di ogni altra cosa, si sostanzia per gli enti di sicurezza nazionale e per i servizi segreti in una fonte di sospetto e timore.
In conclusione, Judas and the Black Messiah si rivela audace nella sua missione, raccontando la segregazione razziale da un punto di vista decisamente originale e forse impopolare, pur non perdendo la carica di drammaticità decisiva nello storytelling della pellicola. A far da padrone non è soltanto la fedeltà storica – che come puntualizzato precedentemente non volge al perfezionismo estremo – ma specialmente l’emozione che, amalgamandosi in maniera eccellente col contesto storico, consente al regista di sfornare un ottimo prodotto. King non si limita nel ricorrere a scelte apparentemente impopolari, pur non rinunciando all’appetibilità nei confronti del grande pubblico cui un’opera di riferimento come questa può anelare.
Articolo a cura di: Antonino Palumbo