Incerti viandanti sul mare della nebbia delle nostre certezze
Il viandante, nel linguaggio comune, è colui che viaggia, non importa se con una precisa meta o con il solo desiderio di esplorare nuove terre. Lontananza e vicinanza, momentaneamente e definitivamente si mescolano per creare un’unica ed indistinguibile sinfonia in grado di imprimere ai muscoli l’energia meccanica necessaria per spostarsi. Il participio presente che costituisce due terzi della parola, con la sua dinamicità e ridondanza, chiede di continuare ad esistere e persistere, vincendo contro un participio che vorrebbe porre una pausa respiratoria tra ciò che è stato e ciò che verrà.

Il viandante a cui alla maggior parte di noi, nel mondo dell’arte, viene in mente è il misterioso uomo di spalle che dal 1818 continua la sua attività di contemplazione, oggi al Museo Hamburger Kunsthalle di Amburgo.
Tacito osservatore nel celebre quadro di Caspar David Friedrich, “Il viandante sul mare di nebbia” è una figura tanto protagonista quanto secondaria nello spettacolo a cui lo spettatore è chiamato a partecipare, da costituire sia il soggetto da decifrare che il mezzo attraverso il quale è possibile aprire la porta dell’opera d’arte.
Essa, infatti, costituisce la massima espressione del movimento artistico diffusosi in tutta Europa nel XIX secolo, il Romanticismo, che con la sua ricerca di soggettività cerca di dare un’alternativa a coloro che si sentono soffocare all'interno dell’oggettività delle regole classiche. Per permettere ciò, la natura con la sua forza spesso dirompente e violenta è la sola capace di far provare all’uomo, minuscolo essere rispetto alla magnificenza di essa, sentimenti perfettamente contrastanti: paura, terrore, impotenza ma anche stupore paralizzante, gratitudine. Il viandante sa di essere disarmato rispetto alla realtà che ha dinanzi ma allo stesso tempo, ritrova una tale corrispondenza tra il suo io e l’esterno da amalgamarsi con quel paesaggio custode di infinito, finendo per esserne parte. Il sublime è infatti, per Burke, “l’orrendo che affascina”, il risultato delle manifestazioni più estreme della natura, il consolatore della limitatezza umana attraverso la creazione di una dimensione illimitata. Grigio, blu, giallo e rosa si mescolano creando un turbine di emozioni che contrasta la nitidezza della figura umana e delle montagne della Boemia.
Da questa visione emerge un viandante consapevole dei propri limiti grazie ai quali può cogliere, attraverso l’immaginazione, ciò che si cela al di là di questi. Senza ostacoli non potremmo dare dei nomi ai punti fissi che desideriamo superare, senza le mancanze non potremmo provare il sollievo che emerge solo quando riusciamo a colmarle, senza le cadute non conosceremmo la soddisfazione che si prova quando riusciamo a rialzarci.
Essere viandanti non presuppone obbligatoriamente uno spostamento fisico, come invece, il significato comune vuole farci credere: possiamo compiere viaggi incredibili anche all’interno della nostra anima da umili esploratori alla ricerca di noi stessi. La reale identità dell’uomo è ignota, forse si tratta di Friedrich Gotthard von den Brinken, caro amico del pittore e comandante della fanteria sassone, ma utilizziamo questo punto interrogativo per riappropriarci del personaggio e trasformarlo in persona. Quando incontriamo questo dipinto, proviamo ad immaginare per qualche istante, di essere quell’uomo e lasciamoci cullare dalla nebbia fitta, così incerta ed intoccabile, eppure l’unica certezza davanti all’infinità del mondo.
L’infinito
«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.»
- Giacomo Leopardi
Articolo a cura di: Emanuela Braghieri