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Il Trumpismo, la fine di un’era?

Probabilmente il Trumpismo sopravviverà a Trump.



I tanto attesi risultati delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, dopo una lunga e incessante attesa protrattasi per diversi giorni, hanno infine proclamato i due candidati Democratici, Joe Biden e Kamala Harris, vincitori. Il penoso indugio, causato da diversi ritardi nello scrutinio dei voti, sottolinea tuttavia un dato piuttosto rilevante: i due neoeletti sfoggiano il merito, non soltanto di aver mantenuto salda la fiducia negli stati storicamente simpatizzanti per l’ala Dem, ma, specialmente, di essersi rivelati capaci di convincere gli ormai più che noti “Swing States”, i quali sembrerebbero aver perso fiducia nella proposta trumpiana. Miriadi di sostenitori da ogni angolo del globo gioiscono di quella che pare, a tutti gli effetti, la sconfitta del multimiliardario e ormai ex - presidente Donald Trump: a discapito di ogni disperato tentativo di rivalsa, le richieste di ricorso circa una ipotetica frode elettorale sembrano, al momento, prive di qualsiasi fondamento. Il rifiuto di pronunciare il tipico discorso di “concessione” – prassi priva di valore giuridico, ma ugualmente significativa nel tessuto socioculturale americano – si configura come null’altro che l’avvilita negazione della realtà. Donald “Deranged” Trump – così ama definirlo George Conway – non si è rivelato capace di perpetrare la strategia elettorale che lo contraddistinse nel 2016 e, nonostante si mostri ancora particolarmente fermo riguardo il suo secondo mandato, conteggiando i “voti reali”, il vocio relativo ad una possibile ricandidatura nel 2024 cresce alquanto celermente.


Si palesa, tuttavia, un quesito concernente il futuro prossimo degli Stati Uniti, nonché dell’intero globo, decisamente più considerevole: Trump ha certamente perso la battaglia e, forse, anche la guerra, ma si può dire lo stesso del Trumpismo? Sebbene la vittoria di Biden si verifichi in occasione dell’elezione presidenziale statunitense con la maggiore affluenza mai registrata nella storia, quest’ultima non appare assolutamente schiacciante, considerando il voto popolare. Difatti, benché il candidato Dem abbia conquistato un quantitativo di grandi elettori più che sufficiente per la vittoria, le sue settantanove milioni di preferenze si discostano di poco dai settantatré milioni di voti favorevoli alla proposta trumpiana. I risultati del voto popolare, inoltre, sembrano avvalorare il quesito precedentemente postulato: mostrano un aumento della preferenza statistica, relativa al disegno di Donald Trump, nelle fasce di popolazione ideologicamente più lontane da quest’ultimo. Il Presidente in carica – seppur ancora per poco – ha acquisito molta più popolarità fra le donne, i latini e gli afroamericani, nonostante abbia frequentemente avanzato proposte politiche a dir poco irrispettose e mortificanti nei confronti di questa parte dell’elettorato. Questo dato, apparentemente privo di rilievo, risulta, invece, sintomatico: la filosofia trumpiana non si limita al singolo individuo, che ne è divenuto interprete, bensì è frutto del pensiero condiviso di decine di milioni di cittadini. Il “Tycoon” si è dimostrato null’altro che un esegeta, capace di comprendere, stimolare e addirittura infiammare i desideri populisti,

caratteristici di una determinante quota della cittadinanza. È indispensabile, di conseguenza, non decodificare erroneamente il trend negativo che ha distinto le destre, anche quelle estreme, americane ed europee; malgrado Trump, icona del Trumpismo, appaia ormai deprivato non soltanto del suo ruolo istituzionale, ma specialmente della sua capacità d’azione, il movimento da lui sovreccitato non cesserà d’esistere con la vittoria di Joe Biden.


Gli Stati Uniti sono ancora assaliti dal secolare dilemma concernente il proprio ruolo in un contesto globale. Quantunque il desiderio di isolare il Paese e di promuovere delle decisioni politiche mirate ad assecondare delle esigenze popolari, piuttosto che i trattati internazionali imperi, l’altro lato della medaglia ritrae degli americani che si identificano appieno nello slogan “Make America Great Again”; al ruolo degli U.S. prefigurato da George Washington nel suo discorso di commiato: «La grande regola di condotta per noi nei confronti delle nazioni straniere è nell'estendere le nostre relazioni commerciali, per avere con loro il minor legame politico possibile», si contrappone la tenacia del sogno trumpista: mantenere lo status di ordine sovranazionale e una capacità decisionale rimarchevole negli affari esteri, aspetti propri dell’America “paladina del mondo”. Alla necessità di concentrarsi sul cittadino, che spesso lamenta esclusivamente gli aspetti negativi della globalizzazione, si oppone la preoccupazione di perdere il proprio ruolo nell’equilibrio globale stesso.


La fine politica di Donald Trump è vicina, ma quella del trumpismo si prospetta piuttosto lontana.


Antonino Palumbo



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