Il terzo millennio e l’irrazionalità della pena di morte
L’esecuzione capitale, frutto avvelenato di un mondo ormai passato, nel terzo millennio non dovrebbe trovar spazio in alcun ordinamento statale. E invece, in questo caso, sembra quasi impossibile affermare che “historia magistra vitæ”.

«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio».
Questo breve pensiero, pur essendo stato espresso in un periodo alquanto risalente – difatti, il saggio nel quale viene esposto, “Dei delitti e delle pene**”, scritto da Cesare Beccaria, fu pubblicato nel 1764 – è in verità di un’attualità sorprendente e disarmante. Le motivazioni – contrarie alla pena capitale – addotte dal celebre giurista, e riassumibili nella convinzione che l’esecuzione sia “una guerra della nazione contro un cittadino”, apparivano già allora ampiamente condivisibili. La pena di morte, secondo Beccaria, non è né un deterrente, né è necessaria in tempo di pace; il fine della pena è la rieducazione del condannato al rispetto di tutti i valori – oggi diremmo, valori di rango costituzionale – lesi dalla commissione di un reato. E, non da ultimo, in una prospettiva propria del filone “contrattualista”, lo Stato, se sanzionasse un delitto con l’uccisione del colpevole, compirebbe un delitto a sua volta, causando lo scioglimento del contratto sociale.

Il 16 dicembre, la sessione plenaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, per l’ottava volta e con 123 voti a favore, una risoluzione per la moratoria delle esecuzioni capitali, con il precipuo obiettivo di giungere – speriamo in un futuro prossimo – alla totale abolizione. La differenza, tra abolizione e moratoria, è sostanziale: se con la prima, da un lato, l’istituto della pena di morte viene integralmente abrogato, con la seconda, dall’altro, l’applicazione della pena di morte viene soltanto sospesa – e quindi, mantenuta nel proprio ordinamento giuridico. Pertanto, a primo acchito, è apparsa preferibile – al fine di coagulare un maggior numero di Stati attorno alla proposta – la via più leggera, cioè la moratoria. Prima di approfondire i risultati di questa importante risoluzione, è necessario indagarne la genesi e i promotori.

Sin dal lontano 1994, in virtù dell’impegno dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, di Amnesty International, del Partito Radicale Transnazionale e della Comunità di Sant’Egidio, il primo Governo Berlusconi propose all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite una discussione riguardo la moratoria universale delle esecuzioni capitali; purtroppo, però, in sede di votazione, la risoluzione non venne approvata per soli otto voti. Negli anni successivi, la situazione sembrò cambiare in positivo: solo cinque anni dopo, l’Unione Europea decise di sposare la posizione italiana, mentre Amnesty International inserì gli Stati Uniti nella lista degli Stati che vìolano i diritti umani. Incredibile la risposta della più grande democrazia del mondo, secondo la quale la Cina avrebbe violato i diritti umani in misura maggiore: per quanto questo risponda al vero, non lava il sangue sparso dagli statunitensi. Inoltre, al coro delle voci contrarie all’esecuzione capitale, in occasione del Giubileo del 2000, si unì anche Papa Giovanni Paolo II, mentre la Comunità di Sant’Egidio presentava una petizione firmata da più di tre milioni di persone al Segretario Generale delle Nazioni Unite, allora Kofi Annan. Dopo sette anni, i tempi – per fortuna – si dimostrarono più propizi e, su proposta del Governo Prodi II, con il sostegno del Parlamento Europeo, l’Assemblea Generale approvò la risoluzione per la moratoria universale sulla pena di morte. Era la prima volta, con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astenuti: da quel momento in poi sono state adottate altre risoluzioni, fino a quella di qualche giorno fa, che rappresenta un tassello importante verso il raggiungimento dell’obiettivo finale.

L’ottava risoluzione, presentata da Svizzera e Messico, annovera tra i 123 Stati favorevoli alcune Nazioni che si sono espresse positivamente per la prima volta, quali, Libano, Giordania, Corea del Sud e Gibuti; mentre Guinea, Repubblica del Congo, Nauru e Filippine hanno cambiato il voto contrario in favorevole; e, in ultimo, Yemen e Zimbabwe si sono astenuti, dopo aver votato in segno contrario nel 2018. Un numero ristretto di Stati ha votato contro (38), mentre ancora meno si sono astenuti (24). Però, tra i favorevoli o astenuti del 2018, alcuni hanno deciso di votare contro, come Pakistan, Uganda, Antigua e Barbuda, Tonga, Dominica e Libia. Inoltre, Amnesty International ha evidenziato che le esecuzioni sono diminuite negli ultimi dieci anni e che, nel 2019, solo 20 Stati ne hanno eseguita almeno una; di contro, Iraq, Yemen, Sud Sudan e Arabia Saudita hanno fatto ricorso alla pena capitale in misura maggiore rispetto agli anni precedenti.
In definitiva ritengo che, con convinzione, sia possibile far proprie le parole di Cesare Beccaria, ossia “se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.”
Articolo a cura di: Elenio Bolognese