Il personaggio letterario da Manzoni a Svevo
Come evolve il personaggio nel corso della storia della letteratura?
È senza dubbio una domanda ampia e complessa, che meriterebbe un altrettanto approfondita trattazione.
Questo articolo non ha pretese di esaustività, ma vuole piuttosto tentare di ricostruire i maggiori snodi e cambiamenti significativi che si sono succeduti in quest’ambito.

Come punto di partenza è interessante analizzare i personaggi de “I promessi sposi”.
Fino a Manzoni infatti ci poteva ancora essere una netta distinzione fra protagonista e antagonista, dunque fra il buono e il cattivo. Don Rodrigo è un antagonista al cento per cento, mentre la bontà del Cardinale Borromeo sfiora la santità. I personaggi di Manzoni non sono di certo stereotipati ma sono coerenti. La stessa Lucia, protagonista insieme a Renzo, non evolve minimamente nel corso romanzo, nonostante le varie vicissitudini che le capitano.
Verga invece, pur essendo anch’egli uno scrittore ottocentesco, introduce notevoli novità. Con Verga c’è forse per la prima volta l’introduzione di un personaggio complesso e ambiguo dal punto di vista morale, ovvero Rosso Malpelo. Il protagonista di questa novella provoca sentimenti contrastanti. È un bambino sfruttato sul lavoro e picchiato dalla madre, è vittima del pregiudizio popolare solo a causa del colore dei suoi capelli, ha visto la morte di suo padre, ma non è un orfano come potrebbe essere Oliver Twist di Dickens. Se da un lato suscita pietà, dall’altro è descritto come un brutto ceffo, torvo, ringhioso, spesso viene paragonato ad una bestia con la bava alla bocca. Cinico e quasi crudele, Rosso Malpelo non è innocente né spensierato come ci si aspetterebbe da un bambino, anzi rivela un profondo pessimismo.
È tuttavia con il Novecento che il personaggio letterario evolve maggiormente.
In Italia un grandissimo innovatore fu Pirandello. La sua arte evidenzia continuamente il contrasto fra forma e vita, che corrisponde a quello fra personaggio e persona. Infatti il soggetto, quando è costretto a vivere nella forma, non è più una persona integra e coerente, ma si riduce a una maschera che recita la parte che la società vuole da lui.
Possiamo trovare a questo riguardo numerosi esempi fra le sue opere, strettamente correlati anche con il nome: solo quando si dà un nome a qualcosa, infatti, esso assume una sua identità e unicità.
Consideriamo il suo dramma in tre atti “Enrico quarto”. Enrico quarto è doppiamente un personaggio, in primo luogo in quanto personaggio di Pirandello, ma soprattutto perché recita (prima a causa della caduta da cavallo, poi consapevolmente) la parte di Enrico quarto. La sua follia rappresenta la sopraffazione del personaggio sulla persona, e dunque non è un caso se ci si riferisce sempre a lui come Enrico quarto e non viene mai pronunciato il suo vero nome.
I “Sei personaggi in cerca d’autore” invece tendono ad essere come le maschere greche e latine, cioè portano una maschera che li identifica chiaramente. Il padre è la maschera del rimorso, la figliastra quella della vendetta, il figlio quella dello sdegno, la madre quella del dolore. I personaggi sono indissolubilmente uniti al sentimento che rappresentano e al loro ruolo all’interno della famiglia, e infatti vengono chiamati “padre, madre, figlia” e non hanno un nome.
Infine, in “Uno, nessuno, centomila” si assiste alla rinuncia volontaria del nome, e quindi la rinuncia dell’identità, per essere nessuno. Il protagonista, Vitangelo Moscarda, dichiara nella conclusione del romanzo di essere diventato come un sasso, o una pianta, quindi senza storia, senza progetti.
«Nessun nome. Nessun ricordo del nome di jeri, del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa, e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca; ebbene, questo che portai fra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo».
Per ultimo, il personaggio novecentesco per eccellenza: l’inetto, il contrario dell’eroe bello, coraggioso, astuto, con degli ideali.
Questa figura è perfettamente rappresentata dal protagonista di “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo.
Zeno Cosini non è un uomo forte e deciso, non è bravo negli affari, sfigura in confronto al cognato, sceglie sua moglie non per amore ma per entrare a far parte della famiglia, è incapace a smettere di fumare.
Per Zeno, e in generale per il personaggio novecentesco, nulla è più sacro. I grandi valori quali l’amore, la morte, la religione, l’onore, sono scomparsi, e invece un tempo erano fondamentali, erano il motore imprescindibile di ogni narrazione.
Facciamo un esempio. Senza quei valori, dell’Iliade cosa resterebbe?
Articolo a cura di: Maria Luisa Da Rold