Il Divo: l’affascinante dicotomia andreottiana
La figura di Giulio Andreotti, noncurante dell’inesorabile scorrere del tempo, esercita ancora oggi un fascino irresistibile su chiunque volga lo sguardo ad uno dei più delicati frammenti della politica italiana. Il “Divo Giulio” – così lo definì il giornalista Mino Pecorelli, ispirandosi a Giulio Cesare – è certamente l’effige di uno dei più controversi periodi della politica italiana, talmente influente da plagiare il futuro immediatamente successivo del Paese. Sono solo alcuni, questi, i motivi che spinsero il celebre regista italiano Paolo Sorrentino a realizzare una pellicola dedicata al “Papa nero”.

“Il Divo – La spettacolare vita di Giulio Andreotti” accompagna lo spettatore in uno dei momenti più critici della politica nostrana, ponendo l’accento sull’epilogo dell’era andreottiana. Sorrentino, dunque, decide di narrare le vicende che caratterizzarono il breve Governo Andreotti VII ed il suo scioglimento, culminando nelle indagini del maxiprocesso di Palermo. La pellicola affronta la narrazione di questo fragile segmento della storia italiana con duplice criterio: l’approccio documentarista cede spesso il passo ad una rivisitazione spettacolare, decidendo, pertanto, di porre lo spettatore di fronte ad un paradosso surreale. Il regista, difatti, immerge il pubblico in una finzione scenica talmente realistica e socialmente condivisa, da scardinare i canoni registici.
Il volto di “Belzebù” – così amava invece definirlo Bettino Craxi – è affidato al magistrale Toni Servillo, per la quarta volta protagonista di una pellicola sorrentiniana. L’attore dona ad Andreotti una indimenticabile maschera di freddezza, un gelido ed impassibile sguardo, impenetrabile neppure di fronte alle accuse di collusione mafiosa. Lo sguardo di un’ombra trascendentale, la quale sembra osservare dall’alto i comuni mortali che la circondano. Un volto enigmatico, ma analogamente magnetico ed eloquente. Il diavolo andreottiano, anche detto “Moloch”, si presenta col volto coperto dall’agopuntura, tentando di lenire le celebri emicranie che lo tormentano da tempo immemore, una figura apparentemente fragile, ma altresì ferma in un grottesco ghigno di mefistofelico autocompiacimento. Iconiche le dita nodose, che con pochi movimenti rivelano molto più di quanto l’ermetico e inumano volto lasci trapelare.
La magistrale interpretazione di Toni Servillo rispecchia, perciò, l’affascinante dicotomia andreottiana: una dualità irrisolvibile, l’ego smisurato del demiurgico potere, accumulato maniacalmente dopo lunghi anni di dedizione, nelle mani di un irriducibile uomo della classe media, che per quanto si sforzi di credere alle lusinghe rivoltegli, non può fare a meno di credersi tutto fuorché un grande statista, intuendosi, piuttosto, come un mediocre. La pellicola sorrentiniana non mira a depotenziare la figura del Presidente del Consiglio romano, anzi, ne offre una spettacolarizzazione: pittura un uomo tormentato dall’inesauribile sete di potere, ma, parimenti, dalle conseguenze dell’uso spregiudicato di tale egemonia. Andreotti non si dimostra in grado di ammettere pubblicamente le terribili macchinazioni da lui architettate: mente al PM di Palermo, dove pare che “Zù Giulio” (Zio Giulio) intrattenesse stretti rapporti col boss di Cosa Nostra, Totò Riina; mente, nondimeno, all’ingenua moglie Livia, follemente innamorata, ma perpetuamente assalita dal dubbio; mente persino al suo ventennale confessore: unico testimone del tormento che la morte di Aldo Moro esercitasse sull’ “Indecifrabile” Giulio.
Andreotti non può, però, mentire a sé stesso: è incapace di negare le atrocità da lui perpetrate, cionondimeno, ne trova chiara e logica giustificazione. Sorrentino decide di concludere l’opera con un flusso di coscienza, un monologo durante il quale la “Vecchia Volpe” confessa, allo spettatore soltanto, i crimini commessi. Cala il sipario, la “Sfinge”, nonostante rimanga impunita e, poiché precedentemente nominata senatore a vita, non venga esclusa, durante la sua quarta età, dalla vita politica, è destinata all’isolamento. La storia sta già scrivendo il prossimo capitolo e il “Gobbo”, non è altro che una pagina, destinato a convivere, sino all’ultimo respiro, col male e il dolore che ha causato.
«La mostruosa e inconfessabile contraddizione: perpetuare il male, per garantire il bene […] Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta… e invece è la fine del mondo! E noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta! Abbiamo un mandato noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male, per avere il bene! Questo Dio lo sa… e lo so anch’io.»
Antonino Palumbo