Il cavaliere inesistente come allegoria dell’esistenza umana
L’opera di Calvino racconta con più di sessant’anni di anticipo la condizione dell’uomo del nostro tempo.

Il cavaliere inesistente è l’ultimo capitolo della trilogia I nostri antenati (Il visconte dimezzato, il barone rampante, Il cavaliere inesistente) di Italo Calvino: pubblicata nel 1959, l’opera è ambientata al tempo di Carlo Magno e tratta una vicenda amara il cui protagonista, Agilulfo, è un’armatura vuota, la cui esistenza ha come unico scopo l’adempimento delle regole della cavalleria. Egli “è soltanto uno che c’è ma non sa di esserci”.
La surreale storia narra del paladino Agilulfo e del giovane Rambaldo, arruolatosi per vendicare la morte del padre per mano dell’argalif Isoarre. Poiché la nomina di paladino è stata meritata da Agilulfo grazie alla vergine Sofronia, da lui salvata anni prima (all’epoca era questa la ricompensa per aver salvato una donna pura), a cambiare il corso della vicenda sono le parole di Torrismondo, il quale sostiene che in realtà la donna in questione sia sua madre (dunque di certo non una vergine). Da qui le vicende che interessano Agilulfo sono i tentativi di quest’ultimo di dimostrare la legittimità del suo titolo di cavaliere, con cui egli identifica la propria essenza.
L’opera di Calvino si configura come allegoria dell’esistenza umana, della possibilità di realizzare se stessi e della difficoltà nello scoprire la propria identità affermandone l’autonomia e il valore, soprattutto nella necessità di individuare una bussola interna che guidi le nostre scelte.
La ricerca della propria identità è un tema che accomuna tutti gli uomini, in ogni tempo e in ogni luogo, e che ricorre in tutta la letteratura nella storia e nel mondo. Tuttavia Calvino, a metà del secolo scorso, guarda con lungimiranza impressionante anche al futuro (ossia al nostro presente), delineando con lucidità la condizione moderna di “robotizzazione” dell’uomo: Agilulfo è simbolo e archetipo di coloro che agiscono con quasi assoluta incoscienza, trasportati da ciò che di loro dice quello che c’è al di fuori (basta pochissimo, infatti, perché tutta l’identità del protagonista come paladino venga messa in crisi dalla mancata approvazione esterna e da quel momento le sue azioni sono motivate esclusivamente dall’esigenza di recuperare lo status perduto dimostrando ad altri di meritare il titolo).
È questa istanza di attualità (che però è allo stesso tempo riferibile ad ogni epoca) ad aver reso l’opera un classico. Si tratta di un romanzo storico che racconta vicende lontane dalla nostra esperienza eppure così vicine alla nostra sensibilità (post)moderna, un libro in cui la dimensione personale, quasi privata, della definizione, conoscenza e affermazione di sé assume una portata universale.
Articolo a cura di: Alysia Giorgia Voltattorni