I 55 giorni di prigionia del popolo
Aggiornamento: 16 lug 2022
“La notte di via Caetani, del corpo di Aldo Moro. L’alba dei funerali di uno Stato”. Canta queste parole “I cento passi”, celebre canzone dei Modena City Ramblers, e ha tutte le ragioni per farlo. La morte di Aldo Moro segnò l’apogeo di anni di tensione, escalation di violenza, brigantaggio e lotta politica armata. Il 9 Maggio 1978 chiuse tristemente il capitolo degli Anni di piombo italiani. Tuttavia, se è facile ricordarsi una data, non è sempre scontato tenere a mente cosa si cela dietro agli eventi e le figure di spicco, ma siamo qui per ricordarlo.

Immaginatevi un’Italia diversa da quella odierna. Pensate a un Paese segnato da lotte interne portate avanti da ideologie figlie di politiche passate e sostenute dalla grande Guerra Fredda che divide il mondo in due blocchi. Idee radicali destinate a mutare, rimodellarsi e forse a sparire, ma che, senza alcuna intenzione di cedere di fronte alla loro inadeguatezza, trovano nel terrorismo un metodo di rivendicazione politica.
Su questo sfondo, una mossa decisiva stava per avvenire nel Bel Paese: il compromesso storico. Dopo anni di sfiducia e opposizione, il PCI, guidato da Enrico Berlinguer, propose una collaborazione con la onnipresente Democrazia Cristiana. Il riavvicinamento avrebbe implicato l’interruzione della conventio ad excludendum che da anni tagliava fuori la sinistra dal governo italiano, ma non solo, avrebbe anche dovuto evitare insurrezioni accontentando ambe due le sfere politiche che polarizzavano il Paese. Questo progetto, però, non vide mai la luce.
Alle 9 del 16 Marzo 1978, mentre il presidente della DC si stava recando alla Camera dei Deputati per presentare la nuova proposta di governo, una cellula armata delle Brigate Rosse intercettò l’auto di Moro in Via Fani (RO) e lo prese in ostaggio. In quella mattina non venne solo rapito un uomo, ma ne furono anche uccisi cinque.
Per amor di giustizia, e perché non vengano dimenticati, ne saranno citati i nomi: Oreste Leonardi e Domenico Ricci (carabinieri), Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi (carabinieri della scorta). La notizia si diffuse con una velocità impressionante e da quella mattina iniziarono 55 giorni di un’estenuante prigionia presso “la prigione del popolo” delle brigate e un vero e proprio processo alla persona di Moro. L’obiettivo finale delle BR era quello di colpire la DC in quanto considerata il male della politica italiana, schiava del capitalismo e delle multinazionali, nonché promotrice dello stato imperialista. Ma anche il PC era nel mirino dei brigatisti: il vero comunismo risiedeva nelle lotte armate e nello scontro rivoluzionario, non nelle istituzioni politiche. Era necessario, quindi, fermare anche la loro ascesa politica.
Le fonti sulla prigionia di Moro, tra lettere, fotografie e comunicati, sono numerose, così come le ipotesi e le speculazioni sul luogo della detenzione. Si possono rilevare tentativi di trattativa durati per tutto il corso del rapimento, infatti le brigate avevano proposto uno scambio: la libertà di Moro per la libertà di alcuni terroristi. Tuttavia, la forza del fronte della fermezza impedì qualsiasi forma di patteggiamento.
L’epilogo della vicenda è noto ai più. Il corpo di Aldo Moro fu ritrovato il 9 maggio nel bagagliaio di una Renault. Il luogo in cui fu lasciato fu tutt’altro che casuale: Via Michelangelo Caetani. Una via che può non significare nulla alla maggior parte delle persone, ma se si guarda con attenzione si noterà che si trova esattamente a metà strada fra la sede nazionale del PC e quella della DC. Una metafora tanto macabra quanto calzante per rappresentare il naufragio del progetto centrista.
È inevitabile domandarsi cosa ne sarebbe stato dell’Italia se il governo fosse stato formato, ma fare fantapolitica è più dilettevole che utile. Ciò che si deve ricordare è la cicatrice marcata a fuoco, simbolo del pericolo dell’ideologie radicali e della lotta politica armata.
Articolo a cura di: Gaia Marcone