Giulio Regeni e Patrick George Zaki: la storia della sistematica violazione dei diritti umani
Regeni e Zaky. Due giovani ragazzi, due storie vicine e che si intrecciano, continuamente, fra lo sdegno e l’indifferenza di una comunità internazionale che spesso si volta dall’altra parte pur di non guardare.

Giulio Regeni era un ricercatore italiano, che in Egitto stava portando avanti delle ricerche sulla difficile situazione dei sindacati indipendenti egiziani.
Giulio è scomparso il 25 gennaio 2016. È stato ritrovato morto dopo otto giorni, in una fossa lungo la strada che dal Cairo conduce ad Alessandria. Il suo corpo, nudo e barbaramente mutilato, presentava evidenti segni di tortura.
Dopo la scoperta sono iniziate le due inchieste parallele della procura di Roma e di quella del Cairo.
Da quel momento in poi, però, l’Egitto fa accavallare silenzi e depistaggi, parlando prima di incidente, poi di omicidio passionale, poi di droga: moventi ritenuti poco credibili dalla procura italiana la quale ha sempre ritenuto che Giulio sia stato ucciso dai servizi segreti egiziani.
La verità, infatti, è sempre stata soltanto una: per il regime egiziano Giulio era uno straniero che non si stava facendo gli affari propri.
Ma cosa c’entrano i servizi segreti egiziani con Regeni? Secondo gli investigatori italiani, Giulio sarebbe stato tradito e consegnato ai servizi dalla sua fonte principale, il leader del sindacato dei venditori di strada.
Il tema dei sindacati indipendenti in Egitto è scottante e va letto alla luce dell’inizio delle proteste in Piazza Tahrir, nel 2011, nate per la continua richiesta di riforme sociali divenute, insieme al famoso sciopero nella fabbrica tessile di Mahalla al-Kubra, il carburante della rivoluzione egiziana.
Nel 2013 un colpo di stato ha consegnato l’Egitto nelle mani di Al-Sisi, che ha dato una stretta ancora più repressiva. Nel 2015, l’Alta Corte Amministrativa del Cairo ha reso illegali gli scioperi, reprimendo il sindacalismo indipendente con false accuse di terrorismo e sabotaggio.
Tantissimi ed esageratamente sfrontati sono stati i tentativi di depistaggio con i quali il regime di Al-Sisi ha cercato copertura per le sue responsabilità per l’omicidio.
Qualche giorno fa, il capo della Procura di Roma, Michele Prestipino, e il procuratore generale d’Egitto, Hamada al Sawi, hanno tirato le somme sulle rispettive indagini. Dall’incontro è emersa, di nuovo, l’insanabile distanza fra le parti: per l’Italia i responsabili sono 5 membri dei servizi segreti (irrintracciabili visto che l’Egitto si rifiuta di fornire i loro indirizzi); invece, per l’Egitto, a massacrare Giulio sarebbe stata una banda di criminali i cui membri sarebbero già stati uccisi dalla polizia egiziana. È per questo che la procura Cairota vuole chiudere le indagini.
Patrick Zaky, invece, è un ricercatore e un attivista egiziano, arrestato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020. Da allora, Zaky si trova rinchiuso nel carcere di Tora con l’accusa di propaganda sovversiva e pubblicazione di notizie contro l’ordine pubblico. Secondo i suoi avvocati, oltre a subire interrogatori, Patrick sarebbe stato minacciato e torturato.
Da allora, ogni 45 giorni ai giudici egiziani viene richiesta la scarcerazione dell’attivista e puntualmente, ogni 45 giorni, i giudici egiziani dicono di no.
Un “no” che rimbomba, ogni volta, da una parte all’altra del mondo, fra sentimenti di sconcerto da un lato e di completa indifferenza dall’altro.
Una custodia in carcere completamente immotivata che viene più volte rinnovata, in teoria per permettere la continuazione delle indagini, in pratica perché il sistema giudiziario egiziano è quello di un Paese dispotico che aggira le norme a proprio piacimento.
Un intento persecutorio ingiustificato, ma troppo potente, quello per Zaky.
Il giudice che lo lascia in carcere è lo stesso che pochi giorni fa ha ordinato il congelamento dei beni dei dirigenti della ONG con cui collabora lo studente di Bologna, arrestati e poi rilasciati in seguito alla pressione internazionale.
Il ricercatore 27enne era impegnato nella difesa dei diritti umani delle minoranze oppresse in Egitto, come la comunità Lgbt. Zaky raccoglieva le informazioni sulle violazioni dei diritti nel Paese e le diffondeva all’esterno.
Dati che riguardano proprio quell’Egitto, che tende a presentarsi agli altri Stati come un Paese moderato, quando invece la repressione al suo interno è estremamente forte e le persone che la denunciano, diventano scomode. Proprio quell’Egitto che detiene nelle sue carceri 60 mila prigionieri politici e in cui la tortura è all’ordine del giorno. Proprio quell’Egitto che, come tutti i Paesi in cui è presente una dittatura, vede con paranoia e isteria i soggetti che la denunciano.
Scomodi e inopportuni, come Zaky e Regeni, per la morte del quale, ancora dopo 4 anni, non è stata scritta la parola fine.
Il mondo intero si muove per mantenere l’attenzione sui due casi, ma questo non basta.
Mentre in Egitto si decideva per il rinnovo della custodia in carcere di Zaky, il rais egiziano Al-Sisi era in visita a Parigi a mostrare un volto del suo Paese non veritiero.
Non dimentichiamoci mai che il Cairo dispone delle più imponenti potenti forze militari del Medio Oriente e dell’Africa e che, negli ultimi anni, ha investito tantissimi soldi in armi e piattaforme, acquisendo una sorta di lasciapassare per tutto, che gli viene concesso dagli Stati proprio in virtù della sua forte posizione.
Ci domandiamo allora se, come Paese, l’Italia sia pronta a rinunciare a tutte le perdite economiche che seguirebbero se la stessa decidesse di iniziare a chiedere urlando e con fermezza la salvaguardia dei diritti umani.
Eppure, l’Egitto ha insultato e oltraggiato due famiglie e un Paese intero, il nostro; perché le storie di Giulio e Patrick riguardano tutti noi. Giulio e Patrick siamo noi.
COLLABORAZIONE
Articolo a cura di: Jureporter