Finito ed infinito
Nella maggior parte delle filosofie che oggi conosciamo, l’elemento primo che viene indagato e posto sotto la lente del filosofo è il mondo: nella sua struttura, nelle sue componenti, nel suo movimento e nelle creature che lo abitano.

Molto frequentemente si giunge poi a definire una sostanza non creata, inscindibile, infinita e non soggetta alla caducità, che si trova alla base del mondo e di tutte le cose conosciute e sconosciute: pensiamo alle idee platoniche, allo Spirito hegeliano, alla Volontà di Schopenhauer, alla filosofia di Eraclito, Parmenide, Heidegger. Tutte queste filosofie, appunto, presuppongono l’esistenza di questa entità, perfetta e sublime, che governa tutto ed è alla base della materia, e che, non essendo soggetta alle sensazioni, è immateriale.
Sarebbe opportuno se l’uomo, naturalmente caratterizzato dalla finitezza, abbracciasse in sé una certa dose di infinità e quindi raggiungesse una perfezione che non si addice alla sua finitezza?
La risposta si trova molto facilmente: pensiamo alla natura, a tutto quello che ci circonda, dalla vegetazione, alla sterminata e variegata stirpe degli animali. Se analizzassimo, per esempio, i comportamenti di una pianta, o le funzioni anatomiche di un animale, noteremmo la loro perfezione.
La natura è un meccanismo completamente funzionante, stabile e composito, che talvolta suscita in noi ispirazione, impotenza, sublimità e meraviglia.
Eppure la natura, come tutte le cose viventi, è destinata ad appassire, a finire. Dunque, dovremmo definire imperfetta la natura, solo perché è destinata a perire? Non dovremmo, invece, cercare la sua perfezione nella sua capacità di autorigenerarsi, di affrontare le difficoltà impostegli dalle stesse leggi della natura e dall’uomo?
Per l’uomo si potrebbe argomentare allo stesso modo. Immaginiamoci immersi in una dimensione infinita, in cui chiaramente, la morte non è contemplata; godremmo, dunque, infinitamente dei piaceri della vita, delle affettività e potremmo anche avere ed ambire a realizzare progetti di lunga gittata.
Non dovremmo però affrontare allo stesso modo, per un tempo infinito, tutte le problematiche che sono legate al vivere e che tutti noi ben conosciamo?
La teologia greca, e più ampiamente, tutta la cultura greca, ci dimostrano come il più felice tra gli esseri viventi sia l’uomo, anche se ha un’esistenza limitata ad un determinato tempo. Quello che i greci chiamano “fzònos zeòn”, ovvero l’invidia degli déi, non è altro che un risentimento da parte delle divinità olimpiche, che hanno comportamenti e sembianze umane, ma una sostanza divina ed infinita, verso l’uomo, perché la sua esistenza è molto più ricca e frivola, rispetto a quella eterna di un dio, che non può percepire il carpe diem, l’attimo, che rende ogni momento di un’assoluta unicità e specialità.
Pensiamo, per esempio, all’Inferno dantesco: nell’Inferno, le anime dannate, sono costrette a subire eternamente la stessa pena, lo stesso flagello che si ripete nel tempo, senza sosta o via d’uscita. Così, allora si presenterebbe la vita umana, se fosse portata ad un livello superiore, a quello dell’immortalità.
Anche la statuaria greca e romana, ricerca modelli di perfezione, rappresentando spesso non uomini reali ma ideali di figure umane, nate dall’applicazione di una serie di regole e proporzioni precise; pensiamo per esempio all’arte di Policleto, che trasmette la piena coscienza della perfezione della figura umana proprio a partire dalla realizzazione del “mantello” che avvolge lo spirito dell’uomo, cioè il corpo.
Forse che troppo spesso, ci siamo concentrati nel ricercare la perfezione all’infuori di noi, che siamo finiti, vagheggiando un infinito, forse inesistente e certamente inimitabile, non considerando il tesoro che si nasconde nei meandri della nostra mente?
Articolo a cura di: Marco Mariani