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Femministe, interruzione volontaria di gravidanza e fecondazione assistita: un nuovo patriarcato?

Anni 70 e femministe di seconda ondata: contraccezione e interruzione volontaria di gravidanza sembrano essere gli obiettivi più ambiti. Oggi la fecondazione artificiale assicura un’altra idea di libertà: siamo sicuri che tutte le femministe siano d’accordo di fronte a questo nuovo tipo di emancipazione?


© FABIO DE ANGELIS

Lo conosce chiunque. “L’utero è mio e lo gestisco io” è uno degli slogan che ha segnato un’epoca fatta di piazze e manifestazioni, di idee in circolo urlate, sussurrate o semplicemente proferite con una voce di donna.


Si parla di autodeterminazione, scoperta della soggettività, di emancipazione e libertà.


Dagli anni Settanta e da quell’aria di nuova vita è ormai passato mezzo secolo, eppure non sembra che sia cambiato molto.


Il dibattito sull’aborto, che vede la sua legalizzazione con la legge del 22 maggio del 1978, è ancora aperto e torna spesso al centro delle discussioni politiche e sociali come a farci da monito sul fatto che i diritti ottenuti non abbiano una garanzia eterna e che ci sia la necessità di continuare a combattere ogni giorno per tenerli in vigore.


Negli anni, però, si è preferito incominciare a parlare di interruzione volontaria di gravidanza, piuttosto che di aborto, un po’ per differenziarlo da quello che può avvenire naturalmente e un po’ a causa dell’etimologia stessa del termine che, derivante dal latino ab e oriri, può essere tradotto letteralmente come “via dalla vita”, perire.


Il risultato non cambia: l’interruzione di gravidanza consiste nell’operazione che, scelta dalla gestante, porta alla rimozione del feto o dell’embrione dall’utero.


Una sconfitta per la vita secondo alcuni, una grande vittoria per quella che, a differenza del feto considerato un essere ancora inanimato, è l’unica persona che prende parte a questa vicenda: la donna.


Già con la sentenza 27 del 1975 della Corte Costituzionale, viene spiegato chiaramente come non esista equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare.


Al centro del dibattito, infatti, vi è un quesito a cui ancora non si riesce a trovare risposta: può il feto essere considerato una persona?


La maggior parte delle componenti conosciute come “pro- vita” sono convinte che sia possibile analizzare la questione considerando un feto come se fosse già un bambino, altri sono più scettici: è anche per questo che in ogni regolamentazione legale dell’interruzione di gravidanza è previsto un limite entro il quale poter abortire che, una volta superato, vedrebbe passare il feto dallo stato di embrione a quello di persona.


Tutto questo, però, nel caso in cui l’embrione si trovasse nell’utero: discorso a parte, infatti, secondo numerose regolamentazioni sarebbe da fare per gli embrioni in vitro.


In Francia, ad esempio, vige una differenza fra gli embrioni in vivo, concepiti e sviluppati all’interno dell’utero umano, da quelli in vitro. I primi, secondo il Consiglio Costituzionale, dovrebbero infatti godere della considerazione di “persone” all’inizio della loro vita, mentre i secondi sarebbero da considerarsi fabbricati: prodotti, non ri – prodotti e pertanto molto più assimilabili a “cose” piuttosto che a persone.


In entrambe le pratiche, sia che si parli di interruzione volontaria di gravidanza, sia che si opti per la fecondazione assistita, la donna troverebbe la libertà di non dipendere dall’uomo, dalla scelta che effettua riguardo a quello che diventerà suo figlio biologico o dal suo seme per il concepimento di uno “nuovo”.


Ciò ha spesso unito molte femministe a favore di entrambe le pratiche che farebbero diventare la maternità una vera e propria scelta consapevole da prendere in modalità completamente autonome.


Con queste nuove pratiche e la loro regolamentazione, la donna sembra poter essere padrona del suo destino.


È qui, però, che alcune voci femministe si staccano dal coro, come quella della filosofa francese Françoise Collin che nel suo “Il lato nascosto della democrazia: la generazione tra desiderio, tecnica e biopolitica.” ci impone, quasi, un dubbio sulla questione chiedendosi se anziché bloccare il patriarcato, l’uso di queste nuove pratiche non possa servire a crearne una tipologia nuova.


Tale dissemilazione delle modalità produttive sia una forma di liberazione oppure al contrario rafforza l’Uno del potere che redige la carta, quell’Uno ormai identificato con “la” Scienza invisibile che investe i suoi innumerevoli servitori, alla maniera di una nuova Chiesa, e costringendo il desiderio a formularsi in richiesta? In tale moltiplicazione, si assiste alla “fine del patriarcato”, come alcune/i hanno proclamato, oppure a un suo rinnovamento sotto le vesti di un camice bianco?*


Articolo a cura di: Beatrice Tominic


*Eleonora Missena (a cura di), Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista, Feltrinelli editore, 2014



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