Epicuro è un epicureo?
L’aggettivo epicureo, detto di chi si dedica al godimento dei beni materiali, indica colui che è amante del concreto, un ateo seguace del piacere. Il termine deriva dalla filosofia di Epicuro, filosofo greco del III secolo a.C., che pone al centro della sua riflessione la ricerca della felicità. Ma la filosofia di Epicuro insegue davvero il godimento di ogni piacere? E quale relazione lega il piacere alla felicità?

Quando noi dunque diciamo che il fine è il piacere, non intendiamo i piaceri dei dissoluti e dei gaudenti – come credono certuni, ignoranti o dissidenti o che mal ci comprendono – ma il non soffrire quanto al corpo e il non essere turbati quanto all’anima (Epicuro, Lettera a Meneceo).
La storia rimprovera a Epicuro una certa filosofia della leggerezza: di avere inteso il piacere come sommo bene e fine ultimo dell’esistenza umana e di aver innalzato l’appagamento dei sensi ad ideale di condotta.
Invero la felicità secondo Epicuro è un’arte più difficile di quanto possa sembrare: consiste nella conquista della tranquillità dell’animo, è la ricerca continua dell’assenza di dolore e turbamento, è il saper fare buon uso dei piaceri della vita distinguendone la portata e il valore. Il piacere è sì il bene fondamentale e innato che contraddistingue l’uomo, ma esso non deve degenerare in semplice edonismo. Il piacere va perseguito come un esercizio costante, secondo delle regole ben precise e con un’attenta predisposizione all’ascolto delle proprie intime necessità.
Il corpo chiede di non avere fame, non avere sete, non avere freddo. Chi soddisfa questi bisogni, o pensa di poterli soddisfare, può considerarsi felice come Zeus (Ibidem).
Ecco la prima catalogazione dei soddisfacimenti dell’uomo secondo il filosofo: da un lato i bisogni naturali e necessari (mangiare, bere e dormire) che necessitano di essere appagati per assicurare il corretto sostentamento del fisico; essi, in quanto limitati, possono e devono essere interamente colmati. Ci sono poi i bisogni naturali e non necessari (mangiare un piatto preferito, bere un bicchiere di vino raffinato) i quali vanno perseguiti con cautela e moderazione poiché possono portare all’assuefazione. Infine, come ultima categoria, ritroviamo i bisogni non naturali e non necessari (desiderio di gloria, fama e ricchezza): essi sono illimitati e il loro perseguimento non compiace l’animo umano bensì lo rende inquieto e schiavo della sua stessa rincorsa all’appagamento. Questi ultimi bisogni sono oggetto di profonda critica da parte del filosofo: essi sono piaceri transitori che acquietano l’animo solo in maniera momentanea e transitoria, lasciando poi l’uomo più insoddisfatto e inquieto di prima. Ed è così che viene a crearsi quel circolo vizioso di concreti e al contempo fittizi inseguimenti che trascinano l’esistenza nella dispersione del proprio fine ultimo.
La felicità secondo Epicuro è riuscire a vivere con quanto basta ed essa coincide con “la pace dell’animo, l’eliminazione del dolore e il raggiungimento di un equilibrio interiore” Zeus (Ibidem). Epicuro stesso paragona questo stato di imperturbabilità dell’anima all’assenza di vento di un mare in bonaccia: essa non sta per una semplicistica metafora di calma piatta ma rappresenta invero il momento in cui l’imbarcazione, non riuscendo più a contare nel favore di una vera e propria spinta favorevole, deve far affidamento nelle sole forze dei suoi marinai. Come a dire che ognuno deve farsi infine il vero padrone di se stesso, ponderare di volta in volta il piacere che in quel preciso momento appaga senza viziare, colmare lo spirito di intenti che soddisfano divenendo al contempo virtù.
Il saggio epicureo vede nell’amicizia la virtù che più di altre promuove la felicità: di tutti i beni che la saggezza (sophia) ci porge per la felicità di tutta la vita, sommo sopra ogni altro è l’acquisto dell’amicizia (ibidem). Saggio è quindi colui che sa circondarsi di amici, che sa fare dalla benevolenza e dall’affetto degli altri lo strumento di liberazione dalle proprie inquietudini. È il principio secondo il quale nell’amicizia non si cerca altro che se stessi, o comunque la propria felicità. L’amicizia […] continua a fare integralmente parte dell’ordine della cura di sé, perché è proprio in funzione della cura di sé che bisogna avere degli amici (ibidem).
La filosofia di Epicuro, tratta dalla lettera a Meceneo, è tanto chiara quanto – eccome in questo nostro contesto di vita- difficile da attuarsi: essa invita all’essenzialità dei bisogni e dei piaceri, conduce a riflettere sull’importanza delle relazioni, invita a prendersi cura di sé, del proprio corpo e della propria anima. È un’esaltazione a combattere il superfluo di facile consumazione, ad ascoltarci per arrivare a comprendere che ciò che veramente arricchisce l’uomo sta nella semplice e necessaria conquista di una mediata armonia interiore.
Articolo a cura di: Lisa Bevilacqua