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“E quando poi invecchi?” Come la cultura del tatuaggio si è evoluta nella nostra società

Negli ultimi anni, tatuarsi è diventato comune e molto apprezzato. Finalmente, avere tatuaggi non è più qualcosa di cui vergognarsi, anzi, possedere delle opere d’arte sulla propria pelle è fonte di grande orgoglio. Per tanto tempo però, i più puritani hanno visto i tatuaggi come qualcosa di sporco, quasi appartenente al demoniaco: d’altronde, a tatuarsi per primi nella società moderna furono galeotti e marinai, che non rappresentavano di certo l’élite di una comunità. Pochi sanno che quest’arte ha origini antichissime e che, proprio nel passato, aveva un significato importante.



Tra le più preziose testimonianze troviamo la mummia del Similaun, Ötzi, che presenta tatuaggi su gambe e braccia (probabilmente per ragioni medicali). Altri tatuaggi terapeutici sono stati ritrovati sul corpo de “l’uomo di Pazyryk”, o sulla mummia dell’Altai, i cui disegni si rifanno ad animali immaginari: opere di eccellente esecuzione per essere databili 500 a. C. Ma anche negli antichi Egitto e Roma questa cultura era diffusa: i fedeli cristiani, prima che Costantino lo dichiarasse vietato, erano soliti tatuarsi simboli religiosi per rimarcare la loro fede, rituale che proseguì anche nel Medioevo, sebbene con più difficoltà. Ovviamente, il tatuaggio era invece estremamente ed orgogliosamente praticato nelle tribù indigene dell’Oceania e tra quelle dei Nativi Americani.


Nonostante questo passato positivo, l’avvento di un Cristianesimo decisamente poco inclusivo, ha fatto sì che queste tradizioni venissero demonizzate e vietate. Inoltre, la pubblicazione de “L’uomo delinquente” di Cesare Lombroso non aiutò, giacché in questo manuale venne spiegata la correlazione tra essere criminali ed essere tatuati: i delinquenti presenterebbero caratteristiche antropologicamente simili, che avvicinerebbero loro al mondo animale e a quello primitivo. Tatuandosi, quindi, si attuerebbe una regressione volontaria ad uno stato primordiale e selvaggio. La categorizzazione e la teoria di Lombroso furono particolarmente ben accette da una comunità che era amante della Parola di Dio tanto quanto della censura, per questo motivo, fino agli anni Settanta del Novecento, i tatuatori lavoravano clandestinamente ed in condizioni igieniche favorevoli a batteri e germi – basti pensare che l’inchiostro nero, cosiddetto nerofumo, altro non era che saliva mischiata al nero lasciato dalla fiamma di una candela su una superficie metallica. Da questo periodo in poi, la cultura del tatuaggio riprese piede sempre di più, grazie specialmente ai grandi movimenti giovanili che si distaccavano dall’indottrinamento del dogma cattolico, ribellandosi ad esso.



Le persone iniziano finalmente a riprendere nuovamente possesso del proprio corpo, facendo di esso una tela pronta per essere dipinta. Anche il concetto stesso di tatuarsi viene ribaltato: nelle tribù simboleggiava la appartenenza ad un gruppo, una famiglia, un clan; nella controcultura degli anni Settanta ed Ottanta (ma anche inizio Novanta) tatuarsi significava liberarsi da etichette sociale, un segno di non-appartenenza.


Oggi il tatuaggio è espressione di arte pura, comunicazione di sentimenti: significa non voler dimenticare mai. In questa epoca in cui il corpo possiede di nuovo valore, il tatuaggio è la celebrazione autentica del proprio modo di essere e del proprio gusto. Segue delle mode e degli stili, come se fosse una vera propria industria tessile, esistono accademie e scuole apposite per giovani talenti che vogliono rendere la loro arte quanto più viva possibile.


Articolo a cura di: Victoria Pevere



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