Dynasty: la serie che divide
Mossa dalla curiosità verso il mondo dell'omologazione e dalla voglia di trovare un contenuto che annientasse ogni tipo di attività cerebrale, mi sono imbattuta in “Dynasty”. Distribuita dalla genitrice dei contenuti scarsamente curati e potenzialmente commerciali, la serie trova in Netflix una madre adottiva, quella zia che la porta oltre oceano a far baldoria e la trasforma in prodotto di tendenza.

Veniamo a noi: “Dynasty” è estremamente banale, priva di messaggio e surreale al punto da essere ridicola. Conversazioni al limite del teatrale sono accompagnate da atteggiamenti innaturali e macchinosi, nonché da stereotipi nemmeno tanto nascosti. D'altronde si parla di una copia già scadente in origine, “Dynasty” segue fedelmente l'omonima serie degli anni 80. Anche lei un’accozzaglia di elementi presi dai progetti più in voga del tempo. Insomma, un prodotto utile... a spegnere il cervello.
Nel mio essere caustica, tuttavia, ti concedo l’opportunità di confrontarti con il mio modernissimo collega Riccardo, che, puntualmente, rema contro le mie tesi. Ti prego solo di concedergli il beneficio del dubbio, poverino... lui ci prova.
Ciao ragazz* (come va di moda ora), scusate l’entrata ma non potevo esimermi dal dire la mia in un articolo della brava Miriam. Soprattutto perché la penso diversamente. Prima di iniziare ho un messaggio proprio per Miriam, rispettate la privacy e scendete di qualche paragrafo.
Miriam cara, esci dal salotto borghese da cui scrivi le recensioni. Farebbe bene aprire la finestra, vedere che ci sono tanti tipi di persone al mondo. Capiresti che non tutti vivono SOLO di prodotti ben fatti.
Certo, la qualità è importante, ragionando così andrebbero, però, chiusi tutti i discount alimentari in favore dei negozi bio... non credi?
Lettori, lasciatemi dire che Netflix ha avuto ragione a portare la serie “Dynasty” in Italia. Ci fanno bene queste serie, buttate lì sulle nostre tavole tra una pizza o un gelato a mezzanotte. Perché sono serie tv pensate proprio per questo: fare da contorno. Netflix non ci ha presentato “Dynasty” come una serie innovativa, ma, anzi, è la trama stessa ad essere cos^ esplicita da farci capire che scene ci aspettano. Quindi perché recitare la parte dell’appassionato deluso che si aspettava di più?
Caro Riccardo, mi accusi di recitare la parte della borghese appassionata, quasi fosse necessario essere esperti e d’alto rango per avere buon gusto. Tu definisci la serie bella e, certamente, l’oro, i diamanti e le bellissime ragazze che colmano ogni scena, immagino soddisfino completamente l’ideale di bellezza degli allocchi. Descrivi, inoltre, la serie come intelligente e subito difendi i contenuti stupidi e trash, schierandoti contro quelli ben pensati, ben scritti e ben interpretati, dunque quelli intelligenti. Vuoi convincermi che serie TV del genere ci facciano bene, ma dichiari che siano l’opposto del bio. Affermi l’eterogeneità del genere umano e dei suoi gusti e difendi un prodotto che lo riduce a una serie di stereotipi.
Mi sembri confuso.
Questa serie non è intelligente, non strappa risate, non coccola, non è nemmeno trash, è solo vuota. Il pubblico vuole contenuti in cui può identificarsi e invece gli viene proposto uno scenario di un lusso che non conoscerà mai, in cui si muovono marionette dal fare estremamente costruito, che pensano, dicono e fanno cose che nessun essere umano farebbe.
Produrre un contenuto cinematografico significa essere corresponsabile della formazione personale dello spettatore, significa dare il massimo per fornire un prodotto di qualità, che arricchisca e rispetti l’intelligenza di chi lo guarda. Un prodotto come “Dynasty” trasuda menefreghismo e insulta lo spettatore, dimostrando che ormai ci si fa bastare il minimo. Non credo nelle serie di contorno, credo che se si arriva stanchi a fine giornata bisognerebbe rifugiarsi in un abbraccio, non in una serie che blocchi le attività neurali, e che, se si è con amici, ciò di cui si condivide la visione dovrebbe essere di valore, dovrebbe avere un messaggio, a proposito del quale, a partire dai titoli di coda, bisognerebbe cominciare a parlare per ore.
Scusa Riccardo, ma io credo nella qualità e nella bellezza genuina.
Non serve scusarsi, anzi: credo che questo articolo serva proprio anche a questo. A ricordarci che i nostri gusti e le nostre aspettative non sono universali. Soprattutto, ci fa ricordare che sui due piatti della bilancia ogni cosa trova il suo senso. Anche la serie peggio scritta e interpretata può servire a spezzare, per esempio, da un’intera giornata di lezioni. Insomma, forse la non - serietà va ringraziata.
Miriam Stillitano e Riccardo Galvagni