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Donne e diritti: pratiche di digiuno

Quando il non mangiare divenne segno di ribellione e protesta.



Viene definito sciopero della fame la pratica secondo cui gli scioperanti, per protesta, decidono di smettere di mangiare.


Se effettuassimo uno studio su Google, dal motore di ricerca emergerebbe il racconto di una vicenda avvenuta in un carcere nordirlandese: secondo questo fatto di cronaca, il primo sciopero della fame risalirebbe al mese di ottobre del 1980, quando sette detenuti rifiutarono il cibo come segno di protesta verso il regime carcerario del Paese. Una settantina di anni prima, però, già le suffragiste inglesi si servirono delle pratiche di digiuno per protestare nelle carceri (fin dal 1969, inoltre, anche il nostrano Marco Pannella iniziò ad utilizzare questa forma di protesta).


La maggior parte delle suffragiste inglesi, attive e determinate, afferivano alla Women's Social and Political Union di Emmeline Pankhurst e trasformarono la loro protesta pacifica in veri e propri moti tumultuosi di guerriglia urbana.


Fra queste donne, organizzate autonomamente e istruite in molti ambiti diversi, vi era anche la scozzese Marion Wallace Dunlop la quale, dopo essersi distinta per aver imbrattato i muri del Parlamento con scritte di protesta, fu arrestata e portata nella prigione di Holloway, la più grande prigione dell’Europa Occidentale fino all’anno della sua chiusura, il 2016. Nelle mura di questo carcere, in cui sostò anche Oscar Wilde, furono rinchiuse moltissime suffragiste comprese la stessa Emmeline Pankhurst e le sue figlie.


Le storie che questo carcere nasconde nelle sue celle sono davvero agghiaccianti: fra queste, degni di nota sono i provvedimenti adottati quando le suffragiste non placarono la loro protesta neppure una volta arrestate.


Appena arrivata nella prigione, il 2 Luglio del 1909, Marion Wallace Dunlop avanzò la pretesa di essere trattata come un’imputata politica altrimenti avrebbe smesso di nutrirsi: nonostante le ragioni della loro cattura fossero assolutamente da richiamarsi a cause politiche, infatti, le suffragiste erano trattate come delinquenti comuni. Non ottenne successo.


Così, come racconta Emmeline Pankhurst nella sua autobiografia “Suffragette. La mia storia”, Marion Wallace Dunlop mantenne fede alla promessa e iniziò a rifiutarsi di toccare cibo.


Dal carcere iniziarono ad arrivarle pietanze più allettanti rispetto a quelle previste dal piano alimentare per convincerla a mangiare e il cibo, anziché esserle consegnato in orari prestabiliti, le era offerto sempre, notte e giorno.


La suffragista entrò in uno stato di crescente deperimento e quando si arrivò al punto in cui la morte sarebbe potuta giungere da un momento all’altro*, fu scarcerata nonostante avesse concluso appena un quarto della pena a cui era stata condannata.



Esattamente nel giorno in cui fu rilasciata Marion Wallace Dunlop, vennero portate nel carcere altre quattordici donne accusate di aver rotto finestre e vetrine per portare avanti la loro causa: una volta conosciuta la vicenda della compagna decisero di seguire il suo esempio e si rifiutarono di mangiare.


Scegliere di digiunare non era facile; fino al terzo giorno si era vittime della fame, ma dopo il non mangiare diveniva una nuova abitudine, accompagnata da forti mal di testa, leggeri deliri e la sensazione frequente di vertigine che provocavano dolore e depressione.


Ben più grave del digiuno, invece, fu la Terapia Ospedaliera, messa in atto dalle autorità per contrastare questa forma di protesta.


A dispetto del nome che sembra riportare ristoro nelle pazienti coinvolte, la Terapia Ospedaliera prevedeva l’assunzione forzata di cibo attraverso un tubo di gomma che passava dalla gola allo stomaco.


La prima vittima di questa pratica fu la signora Leigh, dopo appena tre giorni di digiuno.


Per costringere le suffragiste ad ingerire cibo, non venivano utilizzate maniere gentili: le detenute erano condotte nello studio del dottore del carcere, al cui centro si trovava una sedia posata sopra un lenzuolo di cotone per salvaguardare i pavimenti da eventuali macchie.


Proprio su quella sedia le suffragiste che praticavano il digiuno venivano immobilizzate e nutrite forzatamente tramite l’inserimento del tubo di gomma lungo due metri che, dalla narice della detenuta, veniva spinto fino allo stomaco: il cibo, allo stato liquido, era introdotto tramite un imbuto nel tubo fino a giungere allo stomaco della ribelle.


Un medico, un dottore tirocinante e quattro secondine controllavano che tutto si svolgesse senza che le suffragiste sfuggissero alla pratica.


Queste ultime sapevano che alimentare forzatamente un paziente sano di mente era illegale e, forti anche di questo, continuarono a ribellarsi. Su alcune donne, fra cui Grace Roe e Kitty Marion, la Terapia Ospedaliera fu usata più di 200 volte.


Per molti, però, queste storie, questi avvenimenti, queste vite sono ancora sconosciute: un altro tassello del puzzle della storia è andato perduto all’interno di quei tomi scritti da uomini.


Articolo a cura di: Beatrice Tominic


*Emmeline Pankhurst, Suffragette. La mia Storia, Castelvecchi



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