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Disastro del Seveso: quando lotta femminista e ambientale convergono

Può una tragedia ambientale aprire la strada verso nuovi diritti per le donne? Come possiamo non rammentare, in tempi di obiezione di coscienza e crisi climatica, del disastro del Seveso?



Siamo a circa 30 km da Milano, nella provincia di Monza e Brianza, nel comune di Seveso. È un luglio come tanti nel 1976.


Poi un boato, un fischio e una nube nera si alzano dalla azienda ICMESA di Meda, in Brianza. L’odore acre resterà nell’aria, ma non attirerà l’attenzione dei cittadini, abituati a essere esposti a odori provenienti dalle fabbriche.


Lo stesso stabilimento dell’azienda cosmetica avvertirà il sindaco di Seveso dell’incidente solo un paio di giorni dopo, mentre la stampa tacerà fino ad una settimana più tardi quando il Corriere della Sera, nell’edizione milanese, dedicherà un trafiletto all’evento.


Soltanto il tempo porterà la verità in superficie: le piante inizieranno a seccarsi, gli animali a morire. Persino i bambini manifesteranno sfoghi dermatologici vistosi sul corpo e il viso.


Il sindaco vieterà ai bambini di giocare all’aria aperta, di accarezzare gli animali e di mangiare ciò che veniva coltivato negli orti della zona. L’area interessata verrà divisa in tre zone: la A, la B e la C. La zona A sarà completamente evacuata, mentre le altre dovranno attenersi alle direttive.


La nube nera, quella che aveva seguito il boato, si rivelerà essere diossina, sostanza chimica particolarmente tossica (cinquecento volte più della stricnina, diecimila volte più del cianuro) e dalla capacità elevata di diffondersi in maniera capillare e ubiquitaria nell’ambiente utilizzato anche per la produzione del napalm. In molti sospettarono che la stessa fabbrica fosse impiegata per la costruzione del napalm da utilizzare nella guerra del Vietnam.


Ancora non si conoscono con esattezza le conseguenze. Gli unici colpiti fino ad allora erano stati degli operai in altri Paesi. Secondo alcuni studi, la diossina avrebbe la capacità di compromettere i feti degli animali.


Non è esclusa, inoltre, la possibilità che possa accadere anche agli umani: i medici sconsigliano alle donne di procreare per i futuri cinque anni dall’incidente. Le donne incinte sono quelle che pagano, forse, il prezzo più alto: mentre il dibattito sull’interruzione volontaria di gravidanza imperversa già da qualche anno nel nostro Paese, dove vige ancora il Codice Rocco che lo vieta e punisce, si decide di pensare con urgenza al destino delle donne di Seveso.


Nell’11 agosto del 1976, Giulio Andreotti, presentando il nuovo governo di cui è a capo, dichiara che per le donne di Seveso, sarà possibile ricorrere all’esigenza terapeutica di effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza, come avevano richiesto Emma Bonino, estremamente coinvolta nella battaglia, e Susanna Agnelli.


Le donne di Seveso saranno seguite da psicoterapeuti nel corso della loro scelta eppure, nell’autunno successivo, verranno lamentate le lentezze burocratiche, le informazioni tardive e contraddittorie, il palleggiamento di responsabilità che rendono più angosciosa ogni loro decisione, come scrive Giovanna Milella su Noi Donne.


Molte sceglieranno di abortire, anche se poi la maggior parte dei feti, secondo studi effettuati in Svizzera, saranno ancora troppo poco sviluppati per mostrare eventuali malformazioni.


Sui vari gradi di pericolosità della diossina sulle zone più o meno inquinate, si è giocata, come su una scacchiera, una partita che ha implicazioni ideologiche e di potere e nella quale le donne sono state usate come pedine, scriverà Gabriella Lapasini nella sua inchiesta “Le mani inquinate”.


Persino il Time si esprimerà sulla vicenda, inserendo quella di Seveso fra le 10 più gravi disastri ambientali del dopoguerra.


L’opinione pubblica, invece, continuerà a chiedersi quante Seveso fossero presenti in Italia. A questo proposito il 24 giugno del 1982 verranno varate dalla Comunità Europea le basi per la direttiva Seveso che impone agli Stati l’identificazione delle aree industriali maggiormente esposte a rischi.


Dal tragico evento molti inizieranno a chiedersi quanto tali siti rappresentino una testimonianza di progresso o un suicidio che l’uomo è andato a cercare creandoli.


Un ruolo centrale lo avrà Laura Conti, sia in ambito ambientale che per la condizione delle donne di Seveso, medico e donna politica del PCI: questa vicenda la porterà a creare l’associazione che oggi è conosciuta come Legambiente.


Quello che era uno sfogo di un agricoltore del Seveso, oggi non può che rimanere un dubbio irrisolto che si pone costantemente tutta l’umanità.


Articolo a cura di: Beatrice Tominic



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