Dietro le Brigate Rosse
Il 9 maggio del 1978 è una delle date cruciali che segnano la storia della Repubblica Italiana, attraverso un evento storico rimasto indelebile nella memoria collettiva di coloro che lo vissero: in via Caetani, nel quartiere romano di Sant’Angelo, viene ritrovata un’auto rossa, che al suo interno conteneva il corpo senza vita dell’ex leader della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ucciso dopo 55 giorni di detenzione dal gruppo armato filocomunista delle Brigate Rosse. Venne scelto un luogo simbolico per questo macabro episodio, a brevissima distanza sia dalla sede della Democrazia Cristiana che da quella del Partito Comunista Italiano. Ma chi erano le Brigate Rosse e perché hanno commesso un fatto tanto grave?

Furono, a dire il vero, pochi uomini e non particolarmente in arnese a compiere materialmente il sequestro: fra loro Valerio Morucci, che sarà uno dei brigatisti che faranno luce sulla vicenda attraverso il punto di vista di chi l’ha vissuta dall’interno, Adriana Faranda, la sua compagna (sia nel senso comunista che in quello affettivo), Mario Moretti e pochi altri. Questa manciata di uomini e donne componeva la cosiddetta Colonna romana dell’organizzazione; c’era bisogno che fossero in pochi, perché l’anonimato era essenziale: tutti i regolari, come si chiamavano loro, cioè tutti i membri che partecipavano attivamente alle attività delle Brigate, avevano un’identità falsa, con nomi e documenti fasulli. Oltre ai regolari che vivevano in totale clandestinità, tuttavia, le Br contavano numerosi simpatizzanti, soprattutto nella realtà operaia, che non prendevano direttamente parte ad attentati o sequestri, ma in caso di necessità cercavano di supportare l’organizzazione.
La Colonna romana era organizzata, al suo vertice, dal comitato esecutivo, composto da quattro uomini. Al di sopra di essi stava la direzione strategica, che riuniva in sé tutti i comitati esecutivi delle varie colonne sparse per l’Italia e che pianificò il sequestro di Moro.
L’agguato fu progettato con una grande minuzia da parte dei terroristi, nonostante effettivamente non disponessero di mezzi particolarmente avanzati, per esempio le armi erano tutto meno che totalmente funzionali e finirono persino per incepparsi durante l’attacco. Fu analizzato il percorso che faceva quotidianamente Moro insieme agli agenti della sua scorta, ma nessuno dei luoghi in cui sostava abitualmente era adatto alla cattura, perciò i brigatisti decisero di intercettarlo nel mezzo del tragitto, mentre si trovava in auto. Da lì, Moro fu prelevato e trasportato nel luogo dove sarà detenuto per quei 55 giorni in cui la stampa italiana sarà pervasa di ipotesi e teorie, più o meno fantasiose, arrivando a chiedersi se Moro non fosse stato già ucciso, dando luogo alla foto paradossale che possiamo vedere in copertina.
Durante gli anni in cui si pianificava il rapimento di Moro, i primi brigatisti (il cosiddetto “nucleo storico”, legato a Torino) venivano arrestati e processati; le Brigate Rosse, di conseguenza, volevano a loro volta processare lo stato italiano, cioè processare la Democrazia Cristiana, in cui riconoscevano l’essenza stessa dello stato borghese contro il quale si opponevano. Infatti Moro, quando fu fatto prigioniero, fu sottoposto dai brigatisti a quello che loro chiamarono il “processo del popolo”, in quanto autore ed esecutore della “controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice”. Il suo non fu il solo rapimento che le Br misero in atto, ma solo uno dei tanti che furono eseguiti, fra magistrati, imprenditori e industriali, ma fu senza dubbio il più eclatante di tutti: il caso Moro fu probabilmente l’apice di quel periodo storico noto come gli anni di piombo, nel quale la lotta armata estremista fece tremare l’Italia. Dopo il ritrovamento del corpo di Moro, l’allora presidente della Repubblica Cossiga rassegnò le dimissioni, tanto l’avvenimento aveva turbato la vita politica italiana.
Articolo a cura di: Elisa Matta