Cellule tumorali nella sperimentazione preclinica di farmaci: da condanna a morte a risorsa
La sperimentazione animale è un tema che divide gli animi, perchè per quanto regolamentata e limitata sia, ad oggi è ancora indispensabile quando si tratta di farmaci e terapie per l’uomo.
Nessun modello in vitro, infatti, rende la complessità di un organismo e le molteplici variabili che entrano in gioco, legate all’assorbimento, alla metabolizzazione e all’eliminazione di xenobiotici.

La vivisezione, intesa come pratica crudele e incurante della sofferenza, non è più praticata da decenni in ambienti scientifici degni di tale appellativo!
E’ bene infatti specificare per i non addetti ai lavori che l’uso degli animali nella ricerca rispetta il principio delle 3R, inserito nella Direttiva 2010/63/UE del Parlamento europeo e del consiglio, che mira a proteggere gli animali utilizzati a fini scientifici: l’obiettivo è rimpiazzarli ove possibile con modelli 2D o 3D, ridurre al minimo il numero coinvolto e rifinirne l’uso, per minimizzare lo stress e il dolore causato.
Malgrado non siano perfettamente sovrapponibili all’animale, i modelli basati sulla coltura cellulare in vitro hanno dimostrato di essere adeguati per riprodurre morfologicamente i tessuti e i meccanismi di alcune malattie.
Essi permettono di approfondire la nostra conoscenza su molecole che inibiscono i processi di metastasi e di valutare l’assorbimento (e la tossicità, fondamentale!) di alimenti e prodotti sintetizzati in laboratorio.
L’ambiente di un inserto o di un bioreattore, infatti, può essere riprodotto più volte ed è sotto il controllo dell’operatore, che prende nota dei comportamenti cellulari e della risposta dopo determinate ore di trattamento.
Dal 2014 ad oggi, la coltura cellulare ha ampliato il proprio campo di applicazione, entrando nella ricerca biomedica, nell’ingegneria tissutale, nella medicina rigenerativa e nelle industrie.
I modelli di colture cellulari sono utilizzati per lo studio in fase preclinica di farmaci; soprattutto i modelli 3D possono rappresentare in certi casi un’alternativa ai test in vivo sugli animali, con notevole risparmio sia economico che di tempo richiesto per la sperimentazione.
Uno dei modelli più noti si basa su cellule di adenocarcinoma colon rettale, le
Caco-2, isolate nel 1977 dal gruppo di Jorgen Fogh.
Tale linea cellulare è in grado di differenziarsi spontaneamente, una volta giunta a confluenza, acquisendo le caratteristiche tipiche degli enterociti maturi e simulando in vitro l’epitelio intestinale.
Esse formano un monolayer compatto e qualitativamente valido, che si comporta come la barriera intestinale e impedisce, ad esempio, l’assorbimento di un beta bloccante come l’atenololo.
Lo studio dell’espressione genica, della permeabilità e della resistenza transepiteliale rivelano il passaggio da condanna a morte a risorsa, da un tumore maligno alla riproduzione di un epitelio intestinale sano...
L’idea rivoluzionaria è stata pertanto sfruttare sistemi millifluidici partendo proprio dalle Caco-2; i mini-organi su chip sono il primo passo per una comprensione dei meccanismi fisiologici dell’intero organismo.
Il progetto, ambizioso, è ora mettere a punto un complesso sistema, con diverse celle interconnesse che rappresentino gli organi e le loro interazioni all’interno del corpo umano, superando anche la necessità di sperimentare sugli animali.
Un vero e proprio ““human-on-a-chip”!
Si arriverà alla vera medicina di precisione personalizzata, partendo dalle cellule del singolo individuo e rendendo ogni terapia unica e studiata ad hoc sulla persona?
Per ora, lo studio del differenziamento delle Caco-2 e i primi modelli in vitro per ricreare l’assorbimento intestinale costituiscono delle pietre miliari per le sfide che ci attendono in ambito clinico.
Articolo a cura di: Giulia Biamino